Pirati
Oggi parliamo di Pirateria, con due testimonianze
Lo stretto di Malacca è un braccio di mare lungo quasi 900 chilometri situato tra la penisola di Malacca e l’isola di Sumatra. I suoi bordi si estendono lungo Indonesia, Malesia, Thailandia e Singapore, porta d’ingresso verso il mar Cinese meridionale e l’oceano Pacifico. Si parla quindi di due stretti tra loro collegati: Malacca e Singapore.
Quest’ultimo è, di fatto, una vera e propria autostrada marittima, dove transita circa un terzo del commercio marittimo mondiale. Si tratta di un choke point, area vitale per la prosperità economica non solo dei Paesi adiacenti, ma soprattutto dell’est asiatico, che vede coinvolte nella zona potenze e nazioni con grandi indici economici quali Cina, Giappone, Taiwan, Filippine e Corea del Sud.
Malacca è la via marittima più breve tra i Paesi del Golfo e i mercati asiatici; si tratta inoltre del secondo passaggio marittimo strategico per il trasporto di greggio dopo lo stretto di Hormuz.
Sono molti anni ormai che nello stretto di Malacca vige il fenomeno della pirateria: si tratta di un principio antico e frequente nella zona. Il motivo alla base di tale fenomeno sta nel fatto che la pirateria stessa, svolta in quell’area, offre maggiori garanzie, soprattutto a causa dell’aspetto geografico.
Vi sono infatti punti molto stretti, soprattutto vicino a Singapore, senza dimenticare i numerosi mercantili all’ancora in attesa di entrare nei porti. La pirateria si configura come crimine internazionale che si manifesta in alto mare. L’International maritime bureau (Imb) pubblica ogni anno un accurato rapporto sulla pirateria: l’ente di Kuala Lumpur evidenzia la tipologia degli attacchi compiuti nei vari teatri del continente.
Il mio incontro con i pirati
Quello che segue è un breve report dell’incontro che avemmo con i pirati, in navigazione nello stretto di Malacca verso Phuket. Mi trovavo a Singapore da un paio di settimane, ed eravamo ospiti al Raffles Marina. Io ero a bordo di un Super Maramu 2000, e sapevamo che il rischio di incontrare i pirati non sarebbe stato da sottovalutare, anche se una barca a vela non è interessante come una nave da carico. Avevamo notizia che in quei giorni molte navi erano state prese di mira nel tratto fra Singapore e Malacca, e due volte alla settimana la polizia e la capitaneria tenevano riunioni nelle sale del marina per preparare gli equipaggi ad eventuali incontri poco gradevoli. Noi non avevamo armi a bordo, ma sapevo che qualche barca battente bandiera americana ne nascondeva a bordo, nonostante il rischio di controlli.
Alla partenza da Singapore abbiamo partecipato ad un incontro predisposto dalle autorità portuali per informarci sull’agibilità della navigazione, con riferimento al rischio pirati, ed abbiamo appreso che i governi dell’Indonesia, di Singapore e della Malesia avevano allertato, con un’operazione congiunta, marina ed aviazione per controllare il tratto da Singapore a Malacca.
Le precauzioni che ci hanno suggerito sono state di tenere il VHF acceso sul canale 16, di avvisare in caso di movimenti sospetti e di non farsi prendere dal panico o con armi in mano in caso di assalto. Ci siamo così spiegati i passaggi a bassa quota di aerei militari durante il giorno ed anche la notte, e la presenza di navi militari in mare.
Un pomeriggio, verso il tramonto, noto che una barca a motore, un grosso gozzo, con alcune persone a bordo ci segue a poca distanza: avviso l’armatore della cosa e rimaniamo a controllare i movimenti. Facciamo qualche piccola accostata, andavamo a vela a circa sei nodi, ed anche il gozzo ci segue nella rotta. Accostiamo noi e accosta anche lui, accendiamo il motore per aumentare la velocità, ed accelera anche lui.
Dopo un po’ la barca si avvicina a poppa, si capisce che vuole accostarsi, ed allora cominciamo a preoccuparci. Non abbiamo armi a bordo ed a Singapore ci avevano raccomandato di stare tranquilli in caso di incontri …ravvicinati. La barca si avvicina sottobordo, facciamo grandi sorrisi, ed anche quello che sembra il capo ci sorride e ci fa cenno che…vuole fumare: la tensione si allenta un po’, recuperiamo mezza stecca di Marlboro dalla riserva comperata per queste situazioni, oltre ad alcune birre, mettiamo il tutto in un sacchetto di plastica e lo diamo al nostro ….pirata.
Fortunatamente il nostro gesto viene accettato, non ci sono ulteriori richieste e con una virata di poppavia si allontanano velocemente. Non sapremo mai chi erano effettivamente, né di quale nazione, né ci siamo spiegati l’affiancamento prolungato di oltre mezzora, ma un piccolo dubbio mi è rimasto… ma forse non eravamo abbastanza appetitosi.
Trasferimento in odor di pirati di Antonino Stefani
In alcune aree del pianeta la navigazione è minacciata da gruppi armati che abbordano le imbarcazioni per mezzo di veloci lance a motore. A volte con tragiche conseguenze
Posizione: 12° 17’ Nord – 62° 10’ Est, rotta 306 gradi. Il vento attorno ai 10 nodi da Sud Est ci costringe a tenere il motore acceso per fare almeno 6 nodi, la nostra prossima destinazione è il porto di Salalah, in Oman, dove dobbiamo fermarci per mettere gasolio.
Io e Lilly, abbiamo lasciato in Indonesia il Magic (16,50 m), la barca venturiera con la quale stiamo facendo il giro del mondo e adesso siamo imbarcati sul Dream Catcher, un Franchini 41 degli amici Alberto e Ali che stiamo aiutando nell’ultimo tratto del loro giro del mondo per riportare la barca in Mediterraneo attraverso il Mar Rosso.
Siamo partiti da Langkawi in Malesia, fino a Suez dobbiamo percorrere circa 5.000 miglia, una rotta lunga ma facile, in questo periodo i venti nel Nord Indiano sono orientali, moderati o deboli soprattutto nel mare arabo, il moto ondoso è contenuto e gli squall (groppi) sono rari, generalmente presenti solo nel tratto fino in Sri Lanka.
Le prime 1.200 miglia sono state veloci, il vento da Sud Est attorno ai 25 nodi ci ha permesso ottime medie giornaliere, ma dopo Galle (in Sri Lanka) è decisamente calato e ora siamo costretti a usare il motore per mantenere i tempi che ci siamo prefissi. Motore a parte, sembrerebbe perfetto per un completo relax, ma purtroppo non è così. Nonostante tutto infatti sono poche le barche a vela che affrontano questo viaggio, il problema è il rischio pirati.
Tutta la zona a Nord del parallelo 5 gradi Sud e a Ovest del meridiano 60 gradi Est, fino alla costa Ovest del continente Africano, comprese quelle dello Yemen fino a Al Hudayadah e dell’Oman fino a Ra’s Al Hadd, si estende l’Hra ovvero High Risk Area. In realtà, la zona a rischio, sotto controllo della Ukmto (Volountary Reporting Area) è molto più vasta e arriva fino a 10 gradi Sud e 78 gradi Est. L’Hra è pattugliata dalle navi militari di una coalizione composta da diversi paesi di tutto il mondo, che si alternano nella scorta e assistenza alle numerose navi commerciali che attraversano la zona.
La Ukmto si limita invece a monitorare una vasta area, raccogliendo le segnalazioni di eventuali attacchi o azioni sospette inviate dalle navi in transito; questi report vengono messi a disposizione dei naviganti sul web e tramite e-mail inviate a chi ne fa richiesta.
La High Risk Area (Hra) è un vasto tratto di oceano Indiano che si estende tra Africa e Penisola Araba, al largo delle coste di Oman, Yemen e Somalia. Questa comprende anche il Golfo di Aden passaggio obbligato per il Mar Rosso e quindi per il Canale di Suez. L’associazione Ukmto effettua il monitoraggio degli attacchi per mano di pirati.
Prima della partenza dalla Malesia, ci siamo ampiamente documentati su questo problema. Al trentesimo piano di un grattacielo di Kuala Lumpur c’è l’Imb (International Maritime Boureau), un particolare ufficio che tiene sotto controllo la situazione pirateria in tutti i suoi aspetti, lì si raccolgono informazioni riservate, si analizzano le situazioni territoriali, politiche e malavitose che concorrono a fare della pirateria un grave problema mondiale. Numerose organizzazioni internazionali sono attive a livello militare e civile per salvaguardare la sicurezza del traffico navale in Oceano Indiano, ma nonostante questo, sono sempre di più le compagnie che decidono di non passare per il canale di Suez e di doppiare Cape Town per evitare il problema. Quelle che passano per Suez imbarcano (oramai tutte) un team di guardie armate che di solito sbarca e imbarca a Galle.
Di questi gruppi fanno parte ex appartenenti alle forze speciali di tutto il mondo, dalla Siria alla Croazia, ragazzi che, sapendo maneggiare un fucile, si sono riciclati in un nuovo e remunerativo lavoro. Abbiamo sentito che anche qualche imbarcazione da diporto ha usufruito di questo servizio, anche se con costi davvero proibitivi. Ma veniamo alla nostra esperienza.
Durante la sosta a Galle abbiamo conosciuto il comandante di una grossa pilotina adibita allo sbarco e imbarco delle guardie armate dalle navi, l’operazione non è tra le più semplici, oltre al personale, dalla nave in movimento vengono scaricate o imbarcate le armi contenute in grosse casse o borsoni, qualche giorno prima uno di questi carichi è finito in acqua. Il comandante Percy ha navigato a lungo nella Hra e si è offerto di darci informazioni e consigli per il nostro passaggio così, un pomeriggio, ci siamo riuniti a bordo della sua nave per discutere il problema.
I rischi che avremmo corso sono elevati, una piccola barca è un “boccone” interessante per i pirati, non tanto per i valori presenti a bordo, ma soprattutto, per la possibilità di sequestrare l’equipaggio e chiedere un riscatto. L’attuale situazione politica in Yemen e Somalia ha aumentato la presenza di pirati che cercano fondi per le azioni di guerra, a fronte di pochissimi attacchi negli ultimi tre anni, tra gennaio e aprile del 2017 ci sono state una decina di segnalazioni per attacchi o sospetti attacchi alle navi in transito. Ma cosa può fare l’equipaggio di una piccola barca a vela?
Con Percy abbiamo tracciato una rotta fino in Oman e poi fino a Gibuti, nel primo tratto vanno prese le precauzioni maggiori perché manca la copertura delle navi da guerra che invece battono la rotta da Salalah a Gibuti, lungo il cosiddetto Irtc (International Recognized Transit Corridor). Quindi in questo tratto si naviga a luci e Ais spenti. Naturalmente, visto che il traffico navale è sempre presente, è necessaria una doppia guardia per prevenire eventuali abbordi, così abbiamo cambiato lo schema dei turni di notte, prevedendo due ore su tre con guardia doppia, questo per aumentare il livello di attenzione e poter contare su un secondo rapido parere nel caso di avvicinamento sospetto. Abbiamo inoltre organizzato una procedura in caso di avvistamenti, prevedendo tre livelli di azione in base al comportamento della barca sospetta.
In genere i pirati navigano su veloci “skiff”, barche di 8-9 metri scoperte ed equipaggiate con potenti fuoribordo, a bordo sono presenti 5-6 persone armate con fucili automatici. Quello che si può fare in caso di attacco non è molto, tuttavia sembra che, se i pirati si rendono conto che a bordo ci sono persone armate, desistano dal proposito di attaccare: i “vigilantes” a bordo delle navi si limitano a mostrare le loro armi e i pirati si allontanano, è quasi una specie di codice.
Per noi, usare eventuali armi è però impensabile, colpire per primi ci esporrebbe al rischio di arresto da parte delle autorità, tentare di rispondere al fuoco significherebbe ingaggiare un scontro ad alto rischio, oltre a questo ci sono le grosse difficoltà burocratiche per la detenzione di armi a bordo. Quindi, seguendo i consigli del comandante Percy e un nostro personale ragionamento, ci siamo attrezzati per agire secondo i tre livelli di allarme utilizzando anche alcuni semplici “mezzi di dissuasione”.
Il più importante è una specie di lanciarazzi che utilizza i normali razzi di segnalazione consentiti dalla legge. In questo caso i razzi vanno sparati in orizzontale usando un grosso tubo di acciaio per dirigerli in modo preciso, l’obiettivo è di “sparare alto”, sopra la barca avversaria e, nel contempo, emettere il segnale di soccorso. Percil ci ha procurati due tubi per poter utilizzare due tipi di razzi (con diverso diametro), il tutto è stato assemblato (unendo anche un “mirino”) con nastro da pacchi!
Il secondo dispositivo è costituito da una lunga cima legata a due bottiglie di plastica appesantite affinché possano galleggiare e trascinare la cima a poppa, dovrebbe essere un sistema per bloccare l’elica del fuoribordo dello skiff che ci segue. L’ultimo “mezzo” è un finto fucile che Alberto ha costruito con pezzi di legno e metallo trovati a bordo, una cosa un po’ grezza, ma da lontano potrebbe essere credibile. Oltre all’uso di queste cose, naturalmente riservate in caso di una situazione oramai disperata… abbiamo previsto le chiamate di soccorso tramite telefono satellitare, radio Vhf e Ssb.
E così, armati (soprattutto di buone intenzioni) e forti della nostra procedura di sicurezza a tre livelli siamo partiti da Galle.
Fino a Salalah in Oman sono 1.700 miglia, in questa tratta abbiamo iniziato a spedire giornalmente il nostro report alla Ukmto e a ricevere i bollettini sulla situazione nella Hra, tutto tranquillo, nei 10 giorni di navigazione non ci sono stati attacchi, l’ultimo risaliva al 12 febbraio a 40 miglia dalla costa yemenita.
Dopo Salalah abbiamo cominciato a essere contattati giornalmente (almeno 2 volte al giorno) dalle navi o dagli aerei della coalizione, ci chiamavano alla radio Vhf per chiedere se andava tutto bene e per raccomandarci di segnalare qualsiasi attività sospetta. Una dimostrazione di efficienza, ma chissà, se alla prova dei fatti, il loro intervento sarebbe stato sufficientemente tempestivo.
Lungo la rotta abbiamo incrociato diversi convogli di 3-4 navi scortate da una nave militare, in qualche incrocio ravvicinato, abbiamo notato i vigilantes armati a poppa delle navi. Gli incontri con le imbarcazioni locali, sono avvenuti in due casi, fuori Salalah c’erano due pescherecci con 3 skiff ciascuno legati a poppa, sono sfilati a qualche centinaio di metri alla nostra dritta senza cambiare la loro rotta o rallentare, non abbiamo notato nessuno a bordo. Un pomeriggio, con mare formato e a circa 100 miglia dalla costa, è comparso uno skiff a 500 metri, era nascosto dalle onde e non l’avevamo notato prima. Abbiamo attivato la procedura di “allarme giallo”, ovvero: Ali pronta per chiamare soccorso alla radio Vhf, razzi in coperta, lanciarazzi e cima di poppa pronti all’uso, accensione Ais, controllo visivo costante del mezzo in avvicinamento. Dopo un po’ ci siamo accorti che a bordo della piccola imbarcazione c’era un pescatore con un sacco di reti e bandierine per le nasse, e una donna che aveva un bimbo piccolo in braccio. Dirigevano al largo, verso Socotra, con onda di almeno un metro e 15-20 nodi di vento! Naturalmente l’allarme è rientrato e abbiamo ripreso la nostra consueta navigazione.
Le 700 miglia del corridoio di transito internazionale (Irtc), da Salalah a Gibuti, quasi tutte a vela e motore, sono filate via tranquille, anche se la tensione a bordo era alta. Abbiamo mantenuto spente luci e Ais per essere pressoché invisibili almeno di notte, ci dava una sensazione di maggiore sicurezza, ovviamente abbiamo sempre mantenuto una guardia molto attenta accendendo le luci in caso di incrocio con le navi. Dopo una sosta di tre giorni a Gibuti, dove la presenza militare e navale è davvero massiccia, abbiamo percorso l’ultimo tratto a rischio attraverso lo stretto di Bab El Mandeb fino a Port Suakin in Sudan. La tensione cominciava a sciogliersi anche se, questo tratto, è attualmente il più “caldo” per le forti tensioni presenti nello Yemen e in tutti i Paesi Arabi.
Oggi è il 23 aprile, siamo a Suez, in attesa di transitare attraverso il canale e raggiungere il sospirato Mediterraneo.
L’esperienza è stata interessante ma non la rifarei, in questi giorni abbiamo sentito che c’è stato un forte incremento degli attacchi. Il fatto di non aver nessuna possibilità di controllo su ciò che accade è una brutta sensazione, mare e vento anche se a volte possono essere severi non ci fanno paura, ma risparmiamoci i pirati!