Un disperso alle isole Solomon
di Eordegh Auriemma
Un fortunale improvviso spazza l’isola di Liapari con venti tesi e onde alte. Alla fine pochi danni e barche salve ma alla conta dei pochi abitanti manca una persona.

Liapari, isole Solomon. È qui che dopo 15 anni passati nell’area delle Fiji, inizia la nostra stagione di barca. Ci siamo arrivati un anno fa, grazie a un’informazione vaga raccolta casualmente da un australiano incontrato alle Tuvalu. È così che funzionano le comunicazioni da queste parti.
Poste all’estremità occidentale dell’oceano Pacifico, poco prima della Papua Nuova Guinea, le isole Solomon, selvagge, primitive, intriganti, sono un luogo di transito comodo per chi dall’oceano Pacifico dirige verso quello Indiano, sia che la rotta punti a Sud per passare nello stretto di Torres, sia che risalga verso i territori misteriosi a Nord della Papua Nuova Guinea.
Non solo. L’arcipelago, che si articola in una doppia catena di terre allungate da Nord Ovest a Sud Est tra i 6 e i 10 gradi Sud è, per buona parte, fuori dalla fascia dei cicloni. Per i giramondo che arrivano lungo la classica rotta tropicale da Est a Ovest, le Solomon settentrionali sono un rifugio insperato dove nascondersi o transitare da novembre ad aprile, quando in Sud Pacifico è stagione dei cicloni, evitando così la scomoda navigazione fino alla Nuova Zelanda con la relativa lunga sosta e l’altrettanto scomodo viaggio di ritorno.
Ma perché allora non ci passa nessuno? Perché Solomon, Papua Nuova Guinea e isole limitrofe sono territori inesplorati, con i vantaggi e gli inconvenienti che questo comporta. Isole bellissime, con una morfologia complessa, piene di ancoraggi solitari e di reef pericolosi, dove si naviga con carte approssimative e bisogna inventarsi ogni volta il giusto approccio nei confronti degli abitanti. Gente semplice e primitiva, che vive secondo antiche regole tribali e che non ha idea di chi siano questi strani personaggi che arrivano sulle loro lucide barche a vela, e di come si viva nel resto del mondo. Solitamente sono gentili e accoglienti, ma ci sono stati anche episodi isolati, tipo furtarelli o goffi tentativi di estorsione, che hanno spaventato navigatori a lungo raggio, soprattutto quelli americani. Incidenti che sono aumentati durante i primi anni del secolo, quando le isole erano nel caos di una strisciante guerra civile.
Dal 2003 comunque, la guerra è finita, le Solomon sono pacificate e qualche barca ha ricominciato a transitare. E alle Solomon, appunto, lo abbiamo scoperto l’anno scorso, c’è anche un posto dove lasciare la barca: non un marina, non un porto attrezzato, ma una baietta ridossata, lontana dai pericoli delle città, dove Noel, un neozelandese che gestisce un piccolo cantiere specializzato nella manutenzione di barcacce d’alluminio, accetta di farsi carico delle barche di passaggio.
A Liapari il cantiere mette a disposizione un moletto di legno dove possono attraccare una mezza dozzina di barche e qualche corpo morto, mentre nella laguna antistante c’è spazio per almeno una ventina di barche all’ancora. Si paga (poco) solo se si sta al pontile o al corpo morto, ma tutti, anche quelli che stanno all’ancora, possono usufruire delle strutture di terra: una doccia rudimentale, un bagno, una lavanderia con tre lavandini d’acciaio, cisterne d’acqua piovana, un negozietto aperto tre ore al giorno che vende poco più che fiammiferi e cipolle, un antro buio, torrido e stracolmo, che viene chiamato officina, all’interno del quale i tre uomini che ci lavorano, quando interpellati, sanno sempre mettere una pezza a qualsiasi problema. Sanno saldare, riparare i fuoribordo, stendere la vetroresina, smontare motori, invertitori e cose del genere.
Per i pezzi di ricambio ci si arrangia, adattando parti di vecchi motori a colpi di fresa e tornio. Oppure li si ordina via internet, solo la sera però, quando il segnale della Telecom di Gizo riesce ad arrivare fino a Liapari. E in attesa che i pezzi arrivino ci si rilassa godendosi questo mondo antico e particolare: lo spettacolo delle canoe con i bambini che la mattina presto pagaiano in direzione della scuola la bassa marea di mezzogiorno, quando l’acqua nel canale è profonda solo un metro e ci si difende dal caldo stando a mollo nella corrente, circondati da anemoni, pesci pagliaccio ed enormi stelle blu e rosse. Di pomeriggio le donne che rientrano dagli orti con le canoe passano sottobordo con papaie, noci di cocco, fagiolini giganti, a volte qualche pomodoro. Li vendono o li scambiano con sapone, magliette usate, ami e filo da pesca. Scelta limitata, ma freschezza garantita.
Una volta la settimana si può approfittare della pilotina del cantiere che con un viaggio di 45 minuti va a Gizo, che con solo 6.000 abitanti è la seconda città delle Solomon. Vi si trova qualche emporio cinese per gli alimentari, un paio di ferramenta, un ristorante che offre wurstel e uova sode, un mercato del pesce e uno della verdura, un ospedale gestito da giapponesi.
Liapari insomma è un rifugio in mezzo al nulla dove potersi riposare, mettere a posto qualche magagna della barca e scambiare idee con gli altri equipaggi che hanno deciso di passare di qui. Due gli appuntamenti quasi obbligatori: tutti i pomeriggi ci si ritrova sotto una specie di tettoia rotonda con il tetto di paglia a bere qualcosa guardando il sole che tramonta e la domenica, a pranzo ci si ritrova per una sorta di barbecue, dove ciascuno porta qualcosa e si mangia tutti assieme, ospiti di Noel, il Neozelandese burbero con la faccia segnata dalla vita e della sua dolcissima moglie salomoniana.
Il primo luglio è domenica e alle 13 tutti gli equipaggi sono a terra, per il barbecue. La baia è insolitamente affollata, ci sono 6 barche. Un record mai raggiunto prima. Il menù offre alette di pollo caramellate, riso al cocco, hummus di ceci e penne con le melanzane. Ci sono due barche che stanno rientrando in Australia dopo una regata Melbourne-Osaka non stop e hanno portato sushi e sashimi, fatti con tutti i crismi grazie al pacchetto regata che comprendeva un corso di cucina giapponese in due serate.
Una burrasca improvvisa. Non sono ancora le due quando il cielo si oscura, il vento salta a Nord e diventa violento. Qualcuno poi dirà 50 nodi. Volano fronde di palma, si rovesciano i piatti lasciati incustoditi, la laguna che pure è ridossata si costella di frangenti grigiastri, mentre la sabbia della spiaggia si alza a frustare tutto quello che incontra. Le barche dei regatanti arano già con le prime raffiche e tutti corrono ai dinghy per tornare rapidamente a bordo. Corriamo anche noi, compatibilmente con le possibilità del nostro fuoribordo da 3,5 hp, puntando molto sopravvento alla barca per tener conto delle raffiche che ci fanno scarrocciare. Arriviamo di misura ad afferrare il balconcino proprio mentre cadono i primi goccioloni. Saliamo sul ponte e il mondo scompare in un muro grigio di pioggia, mentre uno di noi corre a mollare tutta la catena per allungare l’ancoraggio e l’altro si arrabatta ad arrotolare la tela impazzita del tendalino per ridurre la presa al vento. Poi, dato che attorno non si vede nulla, scendiamo al calduccio a controllare col Gps che non ci sia scarroccio.
Il fortunale dura mezzora, poi il vento comincia ad addolcirsi. La pioggia continua più a lungo, ma a metà pomeriggio tutto è di nuovo tranquillo. Qualcuno scende a terra a riordinare la postazione abbandonata, qualcuno riappare sul ponte. Luciana e Gavin, una coppia anglo brasiliana che fa charter d’avventura su un catamarano auto costruito, vengono a raccontare che mentre infuriava il finimondo sono andati ad assistere i regatanti che avevano arato fin sulla spiaggia, aiutandoli a rimettersi a galla e ci invitano a cena per la sera dopo, dato che il giorno successivo partiranno verso la Papua. Le cose però poi sono andate diversamente.
Allarme! Manca qualcuno. Sono le 6 e 30 del mattino quando qualcuno bussa. In barca ci si alza presto e abbiamo già fatto colazione, ma è strano ricevere visite a quest’ora. Sono Gavin e Luciana che vengono a dirci che hanno deciso di partire subito: «Andiamo a cercare Jorg, che ieri non è rientrato». «Beh, avrà deciso di fermarsi a Gizo» rispondiamo. «Purtroppo no – continuano – Da Gizo l’hanno visto partire verso mezzogiorno». Non è una bella notizia, perché “Ieri verso mezzogiorno” vuol dire a ridosso di quel brutto fortunale.
Jorg ha un cognome polacco che comincia con tre consonanti, ma è tedesco. Ha 54 anni anche se ne dimostra meno, è giunto a Liapari sei anni fa, se ne è innamorato, ha venduto la barca di ferro con la quale era arrivato dall’Europa e si è fermato. Adora le immersioni e la montagna, così, facendo base a Liapari, ha potuto scalare le pareti del Vulcano Kolombangara, ha battuto tutti i fondali della Morovo Lagoon e della costa Nord di Vella Lavella. Per guadagnarsi da vivere dà una mano a Noel, occupandosi della manutenzione del pontile e dell’officina.
Uno dei compiti che Jorg si è assunto è quello di andare tutte le settimane a Gizo con la lancia del cantiere per rifornire il negozio, sbrigare un po’ di faccende burocratiche, prelevare qualche equipaggio che avendo lasciato la barca a Liapari rientra in aereo. È stato lui con il suo sorriso da bimbo e gli occhi azzurrissimi, ad accoglierci 15 giorni fa al molo dell’aeroporto e a riportarci sulla Barca Pulita.
Il 30 giugno sabato, era venuto sottobordo. Stava andando a Gizo per partecipare a una festa e sarebbe rientrato il giorno dopo. Non dovendo fare rifornimenti, invece che con la pilotina, andava con quella che chiamano motorized canoe, un dinghy di vetroresina rinforzata lungo sei metri con un fuoribordo da 40 hp. Prima di partire ci aveva lasciato sul ponte due pacchetti di pasta corta, presi dalla sua dispensa, dato che gli avevamo detto che a Gizo non se ne trovava. La domenica mattina è ripartito da Gizo, ma a Liapari non è arrivato.
Scattano le ricerche. Per questo Gavin e Luciana hanno deciso di salpare in anticipo: passeranno la giornata a battere il tratto di mare tra Liapari e Gizo e lo stesso faranno Helene e Peter, sul loro ketch d’acciaio autocostruito e le due barche della regata. Da Liapari insomma partono 4 barche a vela in formazione che percorreranno a pettine la rotta verso Gizo, tenendosi più a Nord in considerazione della corrente che secondo Noel è sempre settentrionale.
Vorremmo uscire anche noi, ma la Barca Pulita, ferma da 6 mesi non è pronta. Il motore non è stato spurgato né provato, mentre l’elica è una palla di alghe e denti di cane. Le vele poi sono ancora nei sacchi. Ci vogliono almeno tre ore per inferirle, e quando avessimo finito, con la bassa marea, non ci sarebbe più fondo per uscire dalla passe che collega la laguna all’oceano. “Forse non c’è tutta questa urgenza, ci siamo detti”. Il percorso tra Gizo e Liapari è moderatamente facile. Si tratta pur sempre di oceano, ma tutto intorno ci sono tante isole che spezzano il moto ondoso. Per la prima parte, finché si è sottovento a Gizo si è ben ridossati, mentre nella seconda parte della traversata ci sono onda e vento, ma sono in poppa. La cosa più probabile è che Joerg abbia avuto un problema al fuoribordo e si sia fermato su qualche isoletta da dove non può comunicare perché i telefoni non prendono, o che sia là fuori, da qualche parte, alla deriva. Scendiamo a terra e con altre due persone facciamo il giro di Liapari, due a livello spiaggia e due un po’ più in alto per scrutare tra le creste e sulla barriera, casomai avvistassimo lo scafo.
Camminiamo per un’ora finché incrociamo un gruppetto di locali che arrivano correndo da un villaggio più a Sud e che portano brutte notizie. Ieri, verso le 19, qualcuno ha sentito un rumore come di motore. Sono usciti in canoa e hanno trovato la lancia di Jorg malamente incastrata sul reef, col motore ancora acceso. Dentro un cappellino, una scarpa, un asciugamano. Tutto quanto giallo. Non c’è dubbio che fosse la sua barca. Tutti nella zona lo conoscevano come yellow man, che quando il tempo lo permetteva, girava le isole in kayak. Un kayak leggero, molto tecnico, efficiente e… giallo.

Jorg è salpato verso le ore 12 da Gizo per raggiungere Liapari, durante la traversata la sua lancia è stata colpita dalla burrasca per poi essere trovata incastrata nel reef.
Torniamo di corsa da Noel perché a questo punto bisogna cercare un naufrago e non più una barca e diventa fondamentale dirigersi nel posto giusto e fare in fretta.Anche se il mare è caldo, quanto può resistere un naufrago in oceano tra le onde?
Fino a ora le barche hanno battuto la congiungente tra Gizo e la laguna di Liapari, un po’ più a Nord per tenere conto della corrente, ma se la barca di Jorg si è arenata tre miglia a Sud, vuol dire che forse bisogna cercare più giù. Forse, all’arrivo del fortunale, quando il vento è saltato a Nord, Jorg si è reso conto di non poter navigare controvento ed è andato a cercare ridosso in una baia che si trova 4 miglia più a Ovest. Forse è stata la violenza del mare a farlo scarrocciare verso Sud. Forse…
Intanto è stato diramato l’allarme e alle barche a vela si aggiungono due lance della polizia che arrivano da Gizo mentre da Honiara promettono un aereo, che però non arriverà prima di domani. Chiamiamo con la radio le barche che son fuori con le informazioni su dove cercare nelle poche ore che mancano al tramonto. Poi la sera, una notte lunga e nera, un’alba radiosa e un altro giorno di ricerche.
L’amaro epilogo. Alle tre del pomeriggio arriva la notizia che in un villaggio dieci miglia più a Nord è stato avvistato un corpo sulla barriera. Non si sa se vivo o morto. Il tempo di organizzare la pilotina del cantiere per andare a vedere e arriva notizia che si erano sbagliati. Sarebbe stato troppo bello, ma tutti ci avevamo voluto credere.
La realtà diventa sempre più chiara e triste col passare del tempo. Jorg era ripartito da Gizo la domenica poco dopo mezzogiorno, quando il tempo era bello e niente avrebbe fatto supporre un cambiamento. La botta di vento lo ha sorpreso quando stava transitando davanti all’ultima delle isolette sottovento a Gizo. Da terra lo hanno visto e tutti hanno supposto che si sarebbe fermato, ma lui ha tirato avanti. Forse credeva di arrivare prima che il mare ingrossasse, forse non pensava, come del resto tutti, che il vento rinforzasse così tanto. Purtroppo non aveva il giubbotto di salvataggio e nemmeno il braccialetto di sicurezza legato alla chiavetta che spegne il motore.
Probabilmente un’ondata al traverso lo ha sbalzato fuori e la barca ha proseguito. Forse ha battuto la testa, ha perso conoscenza e il mare, il vento e le onde ripide hanno fatto il resto. Speriamo che abbia davvero perso conoscenza, così almeno tutti ci siamo augurati, riflettendo su quante volte abbiamo preso in giro i passeggeri delle navi da crociera che sono obbligati a scendere per le escursioni indossando il giubbotto di salvataggio. A quante volte abbiamo dimenticato di legarci al polso o alla cintura il cordoncino del pulsante di emergenza.
