Il relitto del Peltastis
Il relitto del Peltastis: una tragedia in Alto Adriatico di Paolo Ponga
Il Peltastis è uno dei relitti più frequentati dai subacquei per la facilità d’immersione
Il piccolo peschereccio di legno, trasformato in barca per subacquei, lascia gli ormeggi e gira la prua verso il mare aperto in maniera apparentemente agevole. È una magnifica giornata estiva e lo spettacolare paese di Vrbnik, sull’isola di Krk in Croazia, ci sta osservando abbarbicato sulle rocce che sovrastano il porticciolo, valutando la qualità della barca e del suo comandante, che pare di grande esperienza, così come deve fare da chissà quanti secoli. L’imbarcazione, in effetti, sa di mare ed è molto comoda, tranne quando il motore è in folle, visto che fa vibrare il legno così tanto da offuscare la vista e impedire movimenti o comunicazione. In barca siamo cinque subacquei, oltre al capitano tedesco, e presto ci muoviamo lenti su un mare finalmente tranquillo dopo giorni di vento. La direzione è nord, verso il Vinidolski canal e il relitto del cargo Peltastis.
La storia del Peltastis
La motonave fu varata con il nome di Alsterpark il 30 dicembre 1952 e consegnata dal cantiere DW Kremer & Sohn di Elmshorn il 6 marzo 1953 alla compagnia armatrice che l’aveva ordinata (la Weidtmann & Ballin oppure la P/R Alsterpark, entrambe di Amburgo). La nave era lunga poco più di 60 metri x 9,1 di larghezza e 5,5 di altezza, con una stazza lorda di 874 tonnellate e un motore diesel da 800 CV che le faceva raggiungere una velocità di circa 11 nodi. Non era una grande nave e così era stata destinata al trasporto costiero ma ben presto iniziò a trasportare in Germania frutta fresca dalla Spagna e a navigare in pieno Atlantico.
Dopo quattordici anni di servizio venne venduta alla compagnia greca Atlantis Mercantile & Shipping Co – CHR M. Sarlis & Co di Patrasso, che aveva intenzione di impiegarla attraverso tutto il Mediterraneo per il trasporto di merci di ogni genere e che la rinominò Peltastis. Agli inizi del gennaio 1968 navigava al comando del capitano Teodoros Belesis, con un carico di minerali caricati in Tunisia e destinati alla Repubblica di Jugoslavia. Dopo aver scaricato il materiale, il 7 gennaio si trovava sulla costa presso il piccolo porto di Jurjevo, a sud di Senj, per riempire le stive di tavolati di legno, quando iniziò ad alzarsi il mare e ad arrivare vento di burrasca. Il comandante sapeva quanto potesse diventare pericolosa la navigazione nell’Adriatico durante l’inverno e decise di volgere la prua verso nord, per arrivare in porti più sicuri: Crikvenica o ancor meglio Fiume, con la baia di Buccari ben riparata.
L’affondamento
Al calar delle tenebre iniziò a nevicare, limitando la visibilità. Le onde erano altissime e il vento terribile. Più avanti la distanza tra la costa e l’isola di Krk si riduceva di molto ed era impossibile attraversare lo stretto in quelle condizioni di mare. Decise così di gettare le ancore vicino a Dramalj, una località a un paio di miglia nautiche da Crikvenica, ma la tempesta era la peggiore da molto tempo a quella parte e la bora spirava dalle montagne a 200 km all’ora. Le ancore presero così ad arare il fondo sabbioso e il capitano diede tutta forza al motore per contrastare la forza del vento ma ogni tentativo pareva inutile: la nave continuava ad andare in direzione sud-ovest mossa dall’implacabile tempesta.
I marinai continuarono in questo modo a lottare per un tempo che parve infinito, spinti inesorabilmente per circa cinque chilometri, fino a quando la nave giunse davanti alla costa rocciosa di Krk, tra i paesi di Silo e Klimno. L’impatto fu devastante: si creò una falla a babordo presso l’elica e la nave cominciò a imbarcare acqua mentre sbatteva ancora e ancora contro le rocce. Alle 3.50 dell’8 gennaio 1968 il Peltastis colò a picco portando con sé otto dei dodici uomini dell’equipaggio. Nei giorni successivi vennero recuperati sette corpi, mentre di quello del capitano non v’era traccia e fu dichiarato disperso.
Le autorità jugoslave concessero all’armatore la possibilità di scendere sul relitto ma per motivi sconosciuti l’immersione ufficiale non venne effettuata. Ne vennero invece fatte diverse nei mesi successivi da sconosciuti, con lo scopo di asportare oggetti di valore, fino a quando dei subacquei non interessarono i media, che fecero intervenire le autorità: a parte le porte sfondate e i furti commessi, c’era un uomo in piedi nella cabina di comando. Erano i poveri resti del capitano Teodoros Belesis, rimasto al suo posto e affondato con la sua nave come nelle più eroiche storie di mare. Le sue spoglie vennero tumulate a Fiume, poi nel 1979 furono traslate ad Atene dalla famiglia.
L’immersione
La giornata che sto vivendo io su queste acque adriatiche è invece ben diversa: il mare è tranquillo e il tempo che occorre per arrivare sopra la nave scorre piacevolmente. Due boe la collegano alla superficie ed è uno dei relitti più frequentati dai subacquei per la facilità d’immersione. Ce ne sono altri in queste acque, affondati per cause belliche, per tempeste o per errori di navigazione, ma molti di essi sono a profondità non ricreative o comunque poco adatte alla clientela estiva, fatta da nordeuropei che vogliono provare l’emozione di mettere la testa sott’acqua. La Peltastis, invece, giace in assetto di navigazione con la prua rivolta verso la costa dell’isola, ad una profondità che passa dai 15 metri fino ai 33 delle eliche.
Scenderemo in due gruppi, io con un subacqueo tedesco che sembra avere esperienza: scoprirò che è di Amburgo e che si immerge anche nelle fresche acque del Nord. Niente guida, come capita spesso in Croazia. Mentre stiamo per immergerci, il capitano ci avverte: “State attenti alla visibilità, spesso le correnti rendono tutto torbido, e soprattutto state attenti all’interno, perché il limo è molto fine ed è facile perdere completamente l’orientamento”. Scendiamo quindi direttamente sulla poppa e andiamo alla ricerca del timone e dell’elica, che però risultano impossibili da fotografare, così come lo squarcio sotto la poppa, dal quale fa capolino un grongo che scompare subito. Niente da fare, la parte inferiore della nave non è percorribile se non a tentoni, così risaliamo di qualche metro e percorriamo tutto il lato di babordo fino alla prua.
Da qui passiamo al ponte di coperta pieno di argani, scalette e angoli, dove si rifugiano una cernia, dei saraghi, delle castagnole e una piccola flabellina, per poi scendere nelle stive dove la visibilità è di nuovo azzerata. Tornati a poppa, ci guardiamo negli occhi dandoci l’ok e ci avventuriamo all’interno, stando bene attenti a non sollevare il fango presente. Visitiamo così il ponte di comando e, al di sotto, le cabine del comandante e del primo ufficiale, girando all’interno fino a quando una sana consapevolezza ci induce a rinunciare a penetrazioni non adatte alla nostra conoscenza della nave e alla nostra attrezzatura ricreativa. Tornati all’esterno, ci godiamo ancora per un po’ le strutture della nave e i suoi abitanti e poi, raggiunti i 100 bar di pressione nelle bombole, ci avviamo verso una lenta risalita lungo l’albero della nave.
Qui è strapieno di vita: le ostriche hanno completamente colonizzato la struttura e nuvole di pesci continuano a girarci intorno incuriositi dai due mostri vestiti di nero che emettono bolle. Vedere così tanta vita in queste acque è davvero uno spettacolo. La pesca indiscriminata ha fatto una strage qui intorno e le pareti sono di solito deserte ma, come sempre, anche questo relitto è diventato un’oasi di vita marina. Se vi piacciono le storie di mare, immersioni e navi affondate, vi rimando a Storie Sommerse e Relitti e Meraviglie, due libri usciti con la casa editrice Il Frangente. Non ve ne pentirete.