Un marinaio che sarebbe piaciuto a Conrad
La storia di navigatori che merita di essere raccontata è fra gli obbiettivi che mi sono proposto quando Antonio Penati mi ha chiesto di gestire Rotte di tutto il mondo.
Le interviste che trovate nel sito ne sono un valido riscontro, e quando ho la possibilità di raccogliere articoli o notizie di altrettanti personaggi che hanno fatto la storia della vela, ma rimangono o sono pressoché sconosciuti, cerco di portarli su queste pagine.
L’ultima volta che ho incontrato Luciano Làdavas mi ha parlato di un amico che abita a Trieste, un navigatore del quale non avevo mai sentito parlare, e che ha una storia particolare. Così quando gli ho chiesto di aiutarmi nel mio scopo di “divulgatore” mi ha inviato l’articolo che segue. Credo, e mi auguro, che i triestini conoscano lo Spugnificio Rosenfeld, di cui Paolo Rizzi è collaboratore; ma pochi forse conoscono questo personaggio, navigatore tanto avventuroso quanto originale.
Giudicate voi.
Un marinaio che sarebbe piaciuto a Conrad
Testo di Luciano Làdavas

Regata Cadice-Santo Domingo, 1988. Seconda notte di traversata a bordo di Gatorade. Al tavolo da carteggio ascolto lo sciabordio lungo lo scafo che duetta con il pesante russare di chi è in branda. Un rumore estraneo mi fa voltare verso poppa. Se non avessi saputo che era stato imbarcato dall’armatore in persona, a vederlo uscire carponi dal portello della paratia stagna avrei gridato al clandestino. Paolo Rizzi sollevò la testa riccioluta, capì la mia sorpresa e accennò un sorriso che subito mi rassicurò. «Preferisco non essere disturbato dalla ciurma quando è il mio turno in branda» mi disse. Pronunciando la parola ciurma arrossì come un bambino scoperto a mosca cieca. Cacciai la testa dentro il vano della timoneria e scorsi, sistemati contro la fiancata di sinistra, un sacco a pelo e una piccola borsa da marinaio a mo’ di guanciale. Poi aggiunse, quasi a prevenire mie obiezioni: «Quando viriamo cambio fiancata, così sono sempre appoggiato sottovento». Sarebbe piaciuto a Joseph Conrad, mi dissi. Provai un sentimento di complicità nei confronti del “coinquilino segreto”, più giovane di me di una quindicina d’anni. A ripensarci, Paolo aveva già, con quell’allusione alla ciurma, intuito non poche cose circa l’equipaggio, diciannove persone differenti per età, perizia marinara e motivazioni.
Giorgio Falck, armatore e skipper, si era riservata la cuccetta bassa di sinistra accanto al gabbiotto di navigazione (ricavato a poppavia della discesa) e aveva assegnato a me, navigatore e co-skipper, quella sopra la sua. Mi sentii persino lusingato. Non tardai a ricredermi quando mi resi conto che l’ingegnere si buttava in branda senza regole di orari, e che fumava una sigaretta via l’altra, sia di giorno sia di notte, anche quando i boccaporti erano chiusi. Il fumo mi saliva inesorabile alle narici (di non fumatore) mentre tentavo di addormentarmi, o impregnava il mio materassino quando ero in coperta. Fui tentato di trasferirmi a poppavia della paratia stagna e condividere con Paolo la sua “cabina”. Ma nelle virate saremmo rotolati uno sull’altro, qualora i nostri turni avessero coinciso. Mi accontentai della cuccetta più a poppa di tutte, dopo averla barattata con il suo occupante, un fumatore, che magari si sentì promosso socialmente.

Della cambusa faceva parte un intero prosciutto di Parma con osso. Consumato razionalmente, poche fettine a testa, sarebbe durato fino a Santo Domingo. Provate a stivare in un Maxi da regata un prosciutto intero, al sicuro da sballottamenti e da muffe. Dopo alcune soluzioni inadeguate, a Paolo venne in mente di metterlo ben stretto nella morsa del banco-officina, più o meno come si vede nei ristoranti. Il suo rimedio, brillante e un poco surrealista, fu approvato all’unanimità. E avrebbe anche funzionato, magari con un equipaggio di persone come lui. La quarta notte di traversata, in un buio senza luna, Paolo mi si para davanti mentre sono al timone: «Luciano, c’è uno strano andirivieni giù a prua, vai un po’ a vedere». Scendo sottocoperta a piedi nudi e a metà barca accendo la torcia puntata verso prua: cinque o sei figuri sono riuniti davanti al banco-officina, chini sulla morsa, intenti allo spuntino di mezzanotte. Il povero buon prosciutto non arrivò nemmeno a passare il Tropico del Cancro.
Nell’equipaggio spiccava un “novizio” alla sua prima traversata oceanica, ma con un impressionante medagliere già alle spalle, e due partecipazioni alla Louis Vuitton Cup come timoniere di Azzurra: Mauro Pellaschier. Per buona parte della traversata, Gatorade fila con medie giornaliere di 11-13 nodi, esaltanti per l’epoca. A Mauro, a Paolo e a me, un primo posto in tempo reale sembra ormai certo. Ma gli entusiasmi crollano arrivando al Mona Passage. Nascono divergenze con Falk circa la tattica da tenere tra le isole. Scivoliamo al quinto posto. Mauro e io lasciamo il Gatorade, seguiti da buona parte dell’equipaggio che non se la sente di continuare, anche per un problema strutturale alla chiglia.
È la vigilia di Natale 1988. Falk affida il comando della barca a Paolo Rizzi, con il compito di riportarla al più presto in Italia. Il Nord Atlantico da affrontare in pieno inverno, con equipaggio ridotto… Dopo una breve sosta nella vicina isola di Saint Thomas per le riparazioni più urgenti, il trasferimento avviene «senza intoppi, con una navigazione a tratti esaltante e due scali tecnici, alle Azzorre e alle Baleari». Ai primi di febbraio ’89, in anticipo sui tempi previsti, il Gatorade è di nuovo ormeggiato a Lavagna, davanti al cantiere Sangermani. Paolo è confermato comandante del Gatorade per tutti i trasferimenti; sarà inoltre capo-turno con Guido Maisto nella regata intorno al mondo, la Whitbread, che partirà da Southampton il 2 settembre.
Dopo una Rimini-Corfu-Rimini velocissima e una Giraglia «vinta a mani basse», trasferisce Gatorade in Inghilterra per la grande avventura, sogno di ogni velista. Ma per Paolo il sogno finisce dopo 28 giorni a Punta del Este, in Uruguay. Il problema nell’unione tra pinna di deriva e scafo si è aggravato, alcune promesse non sono state mantenute, decide allora di sbarcarsi e di rientrare in Italia. L’ultima sera trascorsa a Punta del Este, è a cena con amici in un ristorante vicino al porto. Dalla parte opposta della sala, Peter Blake sta cenando con la moglie. A un tratto si alza e va al tavolo dove si trova Paolo. Gli dice che la sua partenza lascerà un vuoto negli equipaggi della regata e gli augura un felice destino. «Fui talmente commosso che trattenni a stento le lacrime.» Un gesto semplice da parte di uno dei più grandi velisti e navigatori del XX secolo, ma anche il più sincero e autorevole omaggio al valore umano e sportivo di Paolo Rizzi. (Anni dopo, nel 2001 – mentre sul Rio delle Amazzoni partecipa con la sua barca a una spedizione scientifica – Sir Peter Blake sarà ucciso da pirati che volevano rubare gli orologi dell’equipaggio e un vecchio motore fuoribordo.)
Favorito nei suoi inizi di marinaio, Paolo Rizzi lo è stato di certo. Nato a Trieste nel 1959 da genitori appassionati di vela e di mare, fin da bambino naviga con il padre e la madre tra le isole della Dalmazia, a bordo di Vento Fresco I, un 5.50 stazza internazionale trasformato in un cabinato con l’aggiunta di tuga e pozzetto. La sensazione fantastica, a quell’età, di essere gli unici «pionieri» a esplorare il misterioso compenetrarsi di mare e di terra, senza tracce d’uomo, lascerà in Paolo Rizzi ricordi indelebili e, soprattutto, il gusto per un’esistenza fatta di avventure e di viaggi. Itinerari e navigazioni che talvolta lo porteranno a sfiorare eventi cruciali della storia contemporanea. Come quando, a nove anni, va in crociera sull’Ausonia con la nonna materna. L’Egitto poi il Libano. Di ritorno da una visita ai templi di Baalbek, la corriera si fermata a un posto di blocco: con il naso contro il finestrino Paolo assiste al bombardamento dell’aeroporto di Beirut da parte dei caccia israeliani. O quando, nel 2001 a New York, poche settimane dopo l’attentato alle Torri, vedrà il fumo alzarsi ancora dalle macerie spettrali di Ground Zero.

Ciò che guadagna come marinaio lo investe in viaggi aerei e in avventure on the road. Così, sull’onda lunga della beat generation, va da un capo all’altro degli States, facendo anche trasferimenti di automobili per un’agenzia specializzata nell’organizzarli.
Ha solo vent’anni quando un magnate triestino lo invia in Florida per rimettere in sesto e gestire il suo nuovo acquisto, l’ex Great Britain II, il più grande trimarano dell’epoca, lungo 24 metri e largo 12, senza motore. Per quattro mesi Paolo, con un solo compagno d’equipaggio, naviga tra Palm Beach e le isole Bahamas; un’attività «davvero massacrante e di alta acrobazia». Di certo un’esperienza capitale per acquisire esperienza e fiducia nelle proprie capacità. Tornato a Trieste, abbandona gli studi universitari di Geologia e fa lavori occasionali finché, nel 1983, conosce il proprietario italo-australiano di uno sloop di 15 metri, disegnato da Laurent Giles, il Sabaloo, che cerca giovani marinai per tornare con la barca a Melbourne, via Panama. Paolo s’imbarca con altri due membri d’equipaggio. Dopo sette mesi punteggiati di isole e arcipelaghi «fino ad allora soltanto vagheggiati», la barca attracca allo Yacht Club di Melbourne. Venuto il momento di rientrare a Trieste, gli viene offerta la possibilità di farlo con uno scooter sponsorizzato da una marca di motocicli. D’accordo con la sua famiglia, Paolo opta per un più normale viaggio in aereo.
Nel 1985 Paolo Rizzi si trova a New York, quando riceve una telefonata dai suoi genitori che gli propongono di iscrivere Vento Fresco II alla regata Portofino-New York, organizzata da Giorgio Falk con la formula: «Un uomo, una donna, l’oceano». La donna sarà sua madre Angela. Superati parecchi dubbi e incertezze, rientra a Trieste giusto in tempo per adeguare la barca, la più piccola delle tredici partecipanti, al regolamento di regata e rafforzare l’attrezzatura di coperta. Dopo 52 giorni di navigazione «bella e serena», Vento Fresco II taglia il traguardo passando sotto il Ponte di Brooklyn, primo di categoria.

Per quanto ricca di accadimenti possa essere la biografia di una persona, c’è sempre un evento che segna la svolta decisiva. Per Paolo Rizzi l’evento-boa è stato un naufragio, a trentatrè anni. Lo scrittore Paolo Rumiz, suo concittadino, in un testo sulle motivazioni che spingono a viaggiare ha scritto: «Ci sono la fuga e la solitudine negli elementi, come ha saputo dire quel lupo solitario che è lo skipper Paolo Rizzi dopo un naufragio in mezzo all’Atlantico». Più che lupo direi piuttosto orso buono, legato ai genitori e alla famiglia come raramente ho visto in un giramondo. Quando i medici diagnosticano il morbo di Alzheimer a suo padre, Paolo decide di fargli godere, «forse per l’ultima volta», il suo amato Vento Fresco II, un 38′ disegnato da Dick Carter. Nel luglio 1992 lasciano Trieste e dopo una lunga crociera in Mediterraneo arrivano a Gibilterra; qui il padre lascia la barca e rientra a casa. Paolo imbarca l’amico Andrea, alla prima esperienza in oceano. Insieme proseguono fino alle Antille dove, per sostenersi economicamente, organizzano qualche charter. Nell’aprile dell’anno seguente, Paolo e Andrea salpano con Vento Fresco II dalle Isole Vergini inglesi alla volta di Trieste. Non è la prima volta per questa barca: quattro anni prima, con un altro amico, Paolo aveva fatto lo stesso percorso in 52 giorni, senza scalo. Ma questa volta l’Atlantico Nord sembra accanirsi contro il piccolo scafo. Venti per lo più contrari ne ostacolano l’avanzare. Incappano in una burrasca che si muta in tempesta. La mattina del 12 maggio, a circa 700 miglia da Flores, nelle Azzorre, la barca è investita da un violento frangente che la capovolge e sfonda parte della tuga. Paolo è al timone con la cintura di sicurezza, ma il moschettone cede e lui finisce a mare. Un’ondata successiva raddrizza la barca. Paolo riesce ad afferrare un cavo e a risalire a bordo. La prua ormai sott’acqua, Vento fresco II è condannata ad affondare. I due amici salgono nella zattera autogonfiabile e per una settimana vanno alla deriva. Sette giorni lunghissimi, sospesi tra veglia e allucinazioni. Ha scritto Paolo: «Vorrei urlare ma non emetto suono. Qualcuno mi prende in grembo… mia madre dopo il parto. Il sogno sfuma e l’incubo riprende forma. Vorrei poter vomitare sogni e ricordi. La zattera continua a perdere pressione e il suo galleggiamento è sempre più a rischio, devo riportare il mio amico a casa». La radio d’emergenza è senza batterie, ma Paolo ha salvato alcune pile di rispetto prima di abbandonare la barca. Con il cavo elettrico della lampadina del suo giubbotto salvagente, e i contatti assicurati da cerotti trovati nella zattera, riesce a trasmettere un SOS. Lo capta un aereo di linea dell’Air France. Il pilota trasmette le coordinate alla Guardia Costiera americana che allerta un cargo cipriota, in traversata nella stessa zona. La nave si dirotta e poche ore dopo avvista la zattera. L’incubo è finito. Paolo accarezza «inconsciamente il doppio filo di rame che penzola dal giubbotto».

Dal comandante della nave, i due sopravvissuti apprendono che in quella violenta tempesta le raffiche hanno toccato i 95 nodi, e che sono affondate decine di barche, ben più grandi della loro. Molti i dispersi.
L’anno seguente Paolo incontra Elena Pesle, «una ragazzina di ventitré anni», che qualche settimana dopo conquista a Plymouth un titolo mondiale nella classe 420. A unirli è la passione per il mare. Insieme fanno molte navigazioni, tra cui una veloce traversata da St. Maarten a Portofino, a bordo dello Swan Seilan II. Nel 1996 Elena diventa sua moglie.
Il naufragio gli ha modificato il modo di concepire l’esistenza. Gli ha fatto nascere il desiderio di avere una famiglia tutta sua. Di una vita meno vagabonda, insomma. Ma senza rinunciare a navigare a vela.
Il bisnonno di Elena, Davide Rosenfeld, fu colui che nel 1896 creò a Trieste l’attività di lavorazione e vendita delle spugne di mare. Lo Spugnificio Rosenfeld, il più antico di Europa, è attivo tutt’oggi. Paolo, quando non è in un altrove marino, dà una mano in azienda per contribuire a mantenere viva la tradizione. Passa così dalla spuma del mare alla spugna, con l’impegno e la determinazione che sa mettere in tutto ciò che intraprende.
L’ultima volta che l’ho incontrato, alla vigilia del suo sessantesimo compleanno, mi ha detto quasi sotto voce: «Sai, mi ritengo una persona fortunata. Ho avuto bravi genitori; ho una moglie e tre figli fantastici; sono sopravvissuto a un naufragio; sono sempre uscito indenne da situazioni di estremo pericolo». Lo guardo e penso che in un’epoca in cui dominano millanteria, incultura e tronfi personaggi, ben vengano persone come Paolo Rizzi.
