venerdì, Maggio 9, 2025

Maggio – Andrea Pendibene

Ho intervistato regatanti, skipper, scrittori e hostess, ma non avevo ancora incontrato un rappresentante della Marina Militare, un regatante che comunque “inseguivo” da tempo, da quando Penati me lo aveva suggerito. Vi dirò che per parlare con lui ho fatto fatica, perchè è sempre in giro per “lavoro”, ho anche dovuto chiedere il permesso al comandante di Marivela, ma alla fine sono riuscito ad avere un appuntamento e a raccogliere la sua storia. Eccola: ricca di spunti e di entusiasmo per il suo futuro incarico di formatore di futuri campioni…. almeno speriamo!!

Andrea Pendibene nasce a Viareggio nel 1981. Dopo il diploma all’Istituto nautico Artiglio di Viareggio, frequenta due master alla Marine Faculty di Southampton e alla Delft University of Technology in Olanda. Nel 2003 si diploma in progettazione navale per la nautica da diporto. Nel 2007, dopo essere diventato il più giovane italiano di sempre a concludere la Transat 6.50, vince il titolo italiano ed entra nei migliori ottantaquattro skipper del mondo. Tre anni più tardi, nel 2010, non scende mai dal podio in sette regate disputate in Italia e all’estero vince il Campionato italiano Mini 6.50 tra le imbarcazioni di serie e chiude l’anno al terzo posto della ranking list mondiale di classe. Nel 2011 è arruolato nel gruppo sportivo della Marina militare (Marivela).

Ho letto che anche tu hai fatto il nautico a Genova. Come mai quella scelta? La rifaresti?

Sono nato a Viareggio, vedevo il mare tutti i giorni, gli yacht, le barche a vela, da giovane leggevo libri di avventura e di navigatori, per cui il Nautico è stata una vocazione fin da giovane. E poi a Viareggio c’era la cantieristica, giravo in porto fra le barche in allestimento e quelle costruite, guardavo i tramonti sul mare, e mi veniva spontaneo chiedermi “perché rimanere a terra”? Anche adesso, quando non parto per le regate, penso che fare il nautico sia stata una scelta logica, perché è una scuola che ti prepara ad una vita di mare.

Bene, ma adesso, chi è Andrea? Da giovane cosa sognavi di fare?

Pensa che la mia storia nasce con la maestra delle elementari, Rosanna Bonomo. Lei è ancora viva, e quando incontra mia mamma le racconta che a scuola riempivo i libri ed i quaderni di disegni di barche a vela. Avevo già capito la mia inclinazione alla progettazione, all’evoluzione dell’aspetto tecnologico, anche perché a quei tempi stava sbocciando il boom della vela.
Nascevano nuovi cantieri, ricordo l’Alpa, e in me è nata la spinta ad una sfida “globale”, non con me stesso, nè per andare in oceano, ma per sviluppare un progetto innovativo: non più la navigazione in solitario alla Slocum o alla Moitessier, ma una sfida fra professionisti, perchè il velista possa mettersi alla prova con regate dove, oltre all’agonismo, ci sia anche lo spirito di condivisione e di avventura.

Hai nominato l’Alpa, la mia prima barca a vela è stata un’Alpa 34, con lei ho vissuto una bellissima esperienza ed un grande amore

L’Alpa ha “messo in mare” tutta l’Italia, dall’Alpa 670, fino al 740, quella più grossa la 950, la 11,50, barche splendide.

Le tue aspettative e i sogni appena diplomato: come mai non sei stato stimolato a fare la carriera nella marina mercantile?

Non avevo neppure 18 anni: quando ho fatto il nautico, dopo il terzo anno dovevo fare la scelta tra capitano di macchina o di coperta; ho avuto delle notti insonne, però ero già molto riflessivo. Sicuramente non avrei scelto sezione macchinisti, però tra capitano di lungo corso e costruttori è stato veramente un grosso dilemma, perché quello che mi stimolava molto era non tanto la sfida dell’estremo o della velocità, gli attuali Classe 40, gli IMOCA foil; mi interessava conoscere soprattutto la loro parte tecnologica, i materiali compositi, vedere anche il lato ingegneristico.
Questo risvolto mi piaceva, ma non avevo mezzi e non vivevo in realtà come quelle francesi e inglesi, dove partecipare ad una mini transat è una cosa quasi normale.
Mi interessava prima capire come avrei potuto ricostruire una barca, magari partendo da una semi abbandonata, per poi costruirmene una con un progetto mio, come era il sogno di chi faceva una mini transat. C’erano velisti laureati, che si costruivano la barca nel garage, barchini di 6 metri e mezzo, con cui andavano a fare l’Oceano.
Quindi, per tornare alla tua domanda, non ho scelto la carriera della marina mercantile, ma quella dei costruttori, un po’ per colmare la mia voglia di sapere, ma anche per necessità, in quanto poi mi sarei potuto iscrivere a ingegneria a Genova.

Quanto sopra per quanto riguarda la scelta scolastica, ma mi piacerebbe sapere quando il mare è effettivamente entrato nella tua vita.

Per andare in barca a vela, quando sei ancora un ragazzino, devi avere la fortuna di nascere dove c’è un circolo che svolge attività giovanile, perché il velismo è più complesso rispetto ad allenarsi in un palazzetto a fare ginnastica o anche pallanuoto.
Ho iniziato a fare canottaggio quando ero al nautico, e già a quei tempi mi interessava molto la parte ingegneristica: queste barche iniziavano ad essere in composito, carbonio; tra l’altro, in Toscana, vicino a Livorno, c’è il cantiere più importante, Filippi Lido, dove c’erano delle barche stupende.
Devo molto al mio istruttore di canottaggio, Enrico, appassionatissimo di vela; faceva regate, per hobby, e ogni tanto, mentre ci si allenava, parlavamo di barche, di regate, e questo era uno stimolo che da ragazzino doveva ancora sbocciare, ma sapevo già che avrebbe potuto succedere solo facendo prima il nautico e poi ingegneria a Genova.
Nel frattempo crescevo e coglievo tutte le opportunità che mi capitavano: ho navigato con Soldini, ho fatto delle esperienze anche con Manzoli, però non avendo il background da derivista, o da uno che con la vela ci nasce, ho avuto l’intuizione che nelle regate offshore oceaniche serve la presenza a bordo di un ingegnere, perchè sulle barche da regata, nelle sea-race, ci vogliono anche dei tecnici e non solo dei velisti che lavorano di scotta e Winch.

Ti ricordi la prima volta che sei stato da solo in barca a vela?

Sì, bisogna avere una forza mentale e fisica per iniziare a fare vela con il mini transat, ed ho visto questo progetto come qualcosa di “semplice”, perché alla fine sei da solo in barca.
Ho partecipato alla mia prima mini transat nel 2007, per cui io facevo lo stage da Vismara per imparare a lavorare i materiali compositi. Mi sono recuperato in Svizzera una barca semidistrutta, sono riuscito a portarla a casa via Reggio con una cifra simbolica, e quindi ho visto questo progetto come qualcosa che mi avrebbe permesso di crescere in tutti gli aspetti importanti della vela.
La vela sa di mare, lo sport velico non è la regata nuda e cruda, ma è arte marinaresca, come ci hanno insegnato Straulino, Tabarly; saper navigare vuol dire saper riparare un danno, saper governare la barca “con ogni mezzo”, non come ora, dove chi fa regate e strappa un fiocco: «ah no, non posso gareggiare».
Vedevo la mini transat come una esperienza che mi avrebbe permesso di crescere, ed era anche sostenibile con una barchetta di 6 metri e mezzo: la costruisci, la ormeggi, e con questa barchetta potevi fare cose enormi. Quindi ho iniziato a navigare sul mini, a fare scuola a vela sul mini, ho iniziato a fare solitario sul mini, ho iniziato a fare regate sul mini.
Ricordo gli inizi: ero ormeggiato a Viareggio, alla Viareggio Porto S.P.A., dove ho chiesto la mia prima sponsorizzazione ad un bar, frequentato solo da chi andava con i mini, cosa che in Tirreno non è scontata.
Il mini è largo 3 metri, e lì io facevo di tutto, mangiavo, dormivo, lo mettevo a posto, facevo le miglia che servivano, ed ho imparato a fare il solitario. Alla fine mi preparavo da solo, non faceva differenza se stavo da solo a resinare, da solo a guardare la carta nautica, da solo a navigare, da solo per fare un trasferimento; non servono allenamenti specifici, e quando inizia la regata alla fine è una liberazione…ed è ancora così. Il mini è un progetto di vita, ed è diventato il mio “modus operandi”.

Ti ricordi la sensazione che hai provato quando sei entrato in Oceano la prima volta?

Ti racconto la storia: era il 2007, io a settembre sarei partito per la mia prima mini-transat. La barca la portai a La Rochelle molto prima di partire per la regata, perché Cesare, un mio amico che aveva una scuola di patenti nautiche a Viareggio, si prese le vacanze per portarla col carrello.
A giugno imbarcai con il Class 40 Team, la regata Grand Prix Petit Navire, con Soldini, Manzoli, e tra l’altro si vinse; il Class 40 all’epoca era uno dei primi scafi, era velocissimo e lì ero proprio in oceano: le onde, il vento, davano la sensazione di potenza pura. A Brest c’era molta nebbia, bisognava conoscere le maree, ed è stata un’esperienza folle.
Lì è stata la prima volta che ho navigato in oceano, però, pur con il mare in quelle condizioni, farlo con quelle persone ero tranquillo, anche se a bordo mi sembrava di essere in un bagno con il ventilatore acceso.

Quindi avendo portato la barca con il carrello non hai fatto Gibilterra, non sei entrato in Atlantico dal Mediterraneo.

No; prima ho fatto delle regate, quelle che capitavano per fare esperienze più possibili: la Giraglia, le regate di qualifica erano minori, erano facili, da 500 miglia, nel Golfo del Leone, nel sud della Francia.  Lì c’era un bel concentrato di mini, regate che andavano alle Baleari e tornavano, oppure il giro della Corsica; spesso d’estate arrivavano delle maestralate fortissime, una roba folle, erano 5, 6, 10 ore di navigazione, ed anche se non era oceano il mare picchiava. Poi partii per la mini-transat.

Andiamo un po’ sul romantico, le notti in mare, cosa pensi quando sei in oceano, magari guardando il cielo?

Devo essere sincero, per me la preparazione della barca è sempre importante, ed il primo aspetto è sempre legato alla sicurezza; qualsiasi scelta che faccio a bordo, sia in solitario, o in doppio o con altre persone, è legato alla sicurezza, e questo non vuol dire che vado piano o altro; inoltre anche per me l’età avanza, e quando sei in oceano, ed ho un po’ di tempo, (in regata il tempo è poco), ne approfitto per dormire, anche se quando avevo 20 anni era un attimino diverso!
Ho degli scorci di memoria, momenti in cui si accende un film nella testa:
c’è una tempesta, un vento forte, sei concentrato, per cui non te la godi e pensi alla sopravvivenza; poi, quando vedi che sta passando la bufera, oppure il vento cala un attimo, rimangono queste onde frangenti, verdi, cristalline, con tanta schiuma, e capisci la potenza del mare. Sembra che sia quasi calmo: in realtà sono sempre 30-35 nodi, però dopo che hai fatto due giorni magari a 50 nodi, ti sembra che sia calato il vento.”
Queste cose non hanno prezzo, “vedi questi uccelli, magari non sono albatros, che si muovono con questa apertura alare enorme, con il sole che da una luce fortissima, e dà anche noia, perché hai gli occhi pieni di sale, la bocca impastata dal sale, ed hai il sale ovunque.”
Ci sono momenti bellissimi, quando sei un po’ più tranquillo e puoi goderti le albe, i tramonti, quelle notti dove c’è vento, ma non così impegnativo da dover rimanere in piedi, e lì ti accorgi che sei un privilegiato, perché vedi delle “cose” che qualcuno non vedrà mai.

Soprattutto provi dei sentimenti che soltanto in navigazione puoi avere.

Sensazioni: è diverso viverle in quei contesti. Quando fai dei trasferimenti un po’ lunghi, un po’ impegnativi, che non tutti fanno, e non in agosto, ma nei periodi forse più belli, l’autunno, la primavera; vedi colori che ci sono solo in quelle stagioni, arrivi nei porti ed ormeggi senza problemi, e ti sei guadagnato un buon posto in banchina, cosa impossibile in estate.
Situazioni: la soddisfazione di dire ok, ce l’ho fatta, sono riuscito ad arrivare senza problemi, l’ho gestita bene, ho fatto un buon trasferimento, senza rischi, e questo ha un valore diverso, no? Come la pizza fatta in casa, non è buona come quella che compri, però te la sei fatta da te, e quindi la apprezzi in ogni caso.

Ti dirò che anch’io ho fatto molte traversate da Genova al Sud America, imbarcato sulle navi mercantili, e quando facevo le notti di guardia in plancia, ero solo, con la nave che andava, senza rischi, senza pericoli, e mi ritrovavo libero di volare con il pensiero. Anche in barca a vela, attraversando l’oceano (li ho fatti tutti e tre), o in trasferimento da Monfalcone fino a Corfù (ho un record di 72 ore) provavo delle sensazioni che mi portavano lontano, lontano, lontano.

È vero, quando sei solo in mezzo a mare rivedi situazioni della vita che assumono un sapore diverso: pensa che nel 1017 è morto mio papà, e recentemente, ho rivissuto alcuni momenti trascorsi assieme a lui che nella vita normale non avrei apprezzato.

Raccontami la scelta di entrare nella Marina Militare e quindi in Marivela.

Più che una scelta è stata una grandissima opportunità, perché riuscire a fare della propria passione una professione, è il coronamento di un sogno.
Basti pensare che la vela è uno sport che impegna moltissimo, soprattutto se aggiungiamo anche la vela offshore: un velista che inizia da solo può farsi l’esperienza, ma dobbiamo tener presente che per praticarlo c’è la preparazione della barca, c’è la logistica, le regate spesso sono lontane, quindi devi navigare anche per raggiungere il porto di partenza, e come hobby, come passatempo, non è una cosa che uno riesce a fare privatamente, almeno ad alto livello.

Chi era Andrea quando ha scritto il suo primo libro, e spero che ne venga qualcun altro, e chi è Andrea oggi dopo 15 anni?

Risale al 2008, 18 anni fa, e posso dirti che la passione, come voglia di andare per mare, è sempre la solita, anche se poi con l’età e con le esperienze forti che si fanno, ci si rende conto che c’è un’età per tutto. Diciamo anche che, rispetto ad altri sport, se qualcuno volesse continuare con la vela può farlo, perché il nuoto, il canottaggio, hanno una vita sportiva molto più breve.
Ultimamente, anche grazie alla Marina Militare, l’esperienza acquisita con tutte le miglia che ho fatto su diverse barche, dopo tanta navigazione in solitario, in doppio con Giovanna Valsecchi, ultimamente con Andrea Trani, mi hanno fatto capire che è bella anche la parte formativa.
Mi piace l’idea di tramandare le esperienze vissute per cercare di far crescere i ragazzi e le ragazze, perché in Italia, purtroppo, lo sport della vela è praticato in maggioranza dai maschi, a maggior ragione l’offshore rispetto ad altri sport più televisivi, come per esempio il tennis o il calcio.
Sto parlando di questa opportunità anche con la Marina Militare, mi piacerebbe molto portare avanti questa idea, sia come sport velico, sia come scuola di vela e di vita; la vela offshore, richiede molta preparazione, e oltre a formarti velisticamente, ti forma anche come marinaio, come preparatore tecnico, e ti insegna a vivere. In una barca da regata gli spazi sono ristretti, e quando sei in doppio, o in tre o quattro, diventa impegnativo affrontare situazioni difficili, sia mentalmente che fisicamente, però questo ti prepara ad affrontare le situazioni della vita.

Come avviene la preparazione ad una regata d’altura oceanica?

Eh, avviene come tutti gli altri sport oggigiorno.
Io ho vissuto, purtroppo o per fortuna, l’attuale fase di cambiamento; quando ho iniziato, avere la barca presupponeva già una preparazione superlativa, mettersela a posto, provarla un po’ nel porto dove uno stava, fare il trasferimento per poi partire per la regata,
Fino a dieci, quindici anni fa, la settimana prima delle regate offshore ci si preparava la barca, la si sbullonava, la si rimontava; ora invece è diventato un po’ come in tutti gli sport, come in Formula 1.
Pensa che in fondo anche alla Vendee Globe dove si vede il massimo dell’espressione sportiva, gli stessi solitari fanno solo i piloti, al di là che, se necessario, abbiano le capacità tecniche per visionare ed intervenire.
Ora il livello è talmente alto che chi fa offshore, dal Mini Transat al Figaro al Class 40, deve avere la barca pronta mesi prima per fare gli allenamenti e prepararsi fisicamente per l’evento principale.
Ci sono molte esigenze da soddisfare, il cambio vele, sono arrivati i software di navigazione; dove una volta si faceva navigazione per evitare le tempeste, ora invece il giochino dell’analisi meteo è capire dove andare a trovare la situazione ottimale, dove hai il vento forte, possibilmente da dietro, ma senza esagerare, perché ora abbiamo tutti gli scafi plananti.
Quindi per arrivare alle andature portanti a volte si allunga anche la strada, si fa più bolina per prendere un fronte e poi ”andare giù a cannone”, come direbbe Soldini, e questo grazie allo studio della meteorologia.
È una materia che va conosciuta, i software di navigazione sono complicati, per cui bisogna usarli delle ore per imparare ad usarli, perché se si sbaglia una previsione e la si usa, uno finisce in 30 nodi o finisce in 70, e questo cambia la situazione e la vita.

Basta vedere la Vendée Globe ultima!

La Vendée Globe: scelte diverse, è una regata lunga, anche come addestramento; la preparazione delle vele, allenarsi a navigare giorni e notti, fare attività fisica di notte; poi la scelta dei pasti si fa con un nutrizionista, perché vengono preparati prima in base al tipo di regata, alla situazione climatologica, e quindi questo diventa un impegno.
Decidere l’abbigliamento: una volta si andava con le cerate di plastica gialle e ora anche la selezione del guardaroba è una comodità per tutti, la scelta dei vestiti, le cerate sono tutte belle, uno se le prova prima anche se ormai è tutto abbastanza standardizzato.
Alla fine puoi avere tutti gli sponsor e tutti i soldi del mondo, però il bello della vela offshore, che sia in singolo, in doppio, o in equipaggio, è di essere in barca, tu e la barca, là in mezzo al mare, da solo o con il tuo equipaggio, e devi tornare a casa: questo è un aspetto che spesso non tocchiamo.
L’altra cosa bella di questa disciplina sportiva, che a mio avviso è poco sottolineata, è che in questo sport offshore, uomini e donne gareggiano nella stessa classifica, e non centra la forza fisica.
Nell’ultima Vendée Globe, la prima donna è arrivata nei primi dieci, tra l’altro neanche con una buona preparazione rispetto ai primi tre extraterrestri, che oltretutto, comunque, avevano grossi budget ed un team proprio super.
Questo è un altro aspetto simpatico, e mi piacerebbe, assieme alla Marina Militare, cercare di portare avanti in questo settore non solo i ragazzi, ma anche le ragazze, perché secondo me è uno sport dove con la preparazione e la programmazione anche le ragazze possono dire la loro! 

Preferisci la navigazione in solitario o in equipaggio? E perché?

Mah, una volta ti avrei detto in solitario, ora ti direi in doppio o con equipaggio, nel senso che comunque in solitario c’è sempre una parte più importante di rischio, ed è vero che c’è, perché se sei da solo, qualsiasi cosa può diventare un problema.
Quindi senza pensare di cadere in mare, e nessuno butta il salvagente o manda un segnale di soccorso, c’è anche un altro problema: il disalberamento, come mi è capitato durante la mini, e per fortuna sono riuscito a mettere un albero di fortuna e tornare indietro.
Poi in solitario il pilota automatico è una parte fondamentale, e in navigazione hai una grande agevolazione in base al tipo di pilota e al software; quindi c’è proprio una parte dell’allenamento durante il quale devi imparare a navigare col pilota, e questo (diciamocelo) toglie anche un po’ di poesia.
Mi è piaciuto molto il format del Figaro in doppio, sia doppio misto, fatto con Giovanna, ma poi anche il doppio che ho fatto con Trani e poi con altri ragazzi, merito della Marina che permette di fare una sorta di effetto spogliatoio, effetto trasmissione.
Se navighi in solitario non c’è una crescita dell’altro, come in Formula 1: cambiano il pilota, ne mettono un altro, però è una persona già formata.
Invece navigare in doppio permette che il veterano, che è un pochino più esperto, può trasmettere al compagno, che può essere un ragazzo un pochino più giovane, di crescere, e secondo me questa è una bella cosa.
Nel doppio conta molto l’assieme dell’equipaggio, nel senso che possono essere due figure complementari: magari un ragazzo che ovviamente è anche un po’ più forte fisicamente, con un profilo più da sport “bellico”, da marinaio, e una ragazza, con un profilo un po’ più da derivista, magari più brava sul dettaglio, sulla regolazione, sull’analisi meteo, quindi è un team che si può completare come tipo di esperienza, di background.

C’è una compensazione tra uomo e donna diciamo, anche come caratteristiche

Sì, c’è una compensazione, che dipende un po’ dall’uomo e dalla donna, come succede in Ocean Race, dove ora metà sono navigatori provenienti dalla deriva e metà sono oceanici tecnici.
Comunque l’offshore rispetto alle derive, è uno sport con delle difficoltà.
Questo è vero anche nelle derive, però uno esce di giorno, c’è il gommone accanto, sei vicino alla riva, ed il rischio è un altro, quello di arrivare ultimo; se sei fuori in deriva, e ti entra la Bora quando sei fuori con l’allenatore, questo ti piglia, lasci lì la barca e ti traina in porto con la barca di appoggio.
Invece il rischio di farsi male, specialmente per chi inizia nell’offshore, è alto, perché o si sopravvaluta, o si sottovaluta la situazione. Pensa in Adriatico: sei fuori in mare e arriva un colpo di Bora davanti al Quarnaro e pensi: “beh, entro in porto “, ma sai che non c’è un porto sicuro, forse marina di Ravenna, ma poi sotto non c’è più nulla fino a Brindisi.
Io vengo dal canottaggio, sono fisicamente preparato, ma ti accorgi che spesso in regata superi i tuoi limiti.
Chiudo parlandoti dell’esperienza dell’Ocean Race: hai i tuoi turni e li rispetti, ma quando sei in coperta devi essere efficiente al mille per mille, spesso è “strafolle”,  e quando arriva il cambio e scendi sottocoperta sei collassato.
Nell’offshore, in solitario o in doppio, non superi mai il tuo limite perchè gestisci le situazioni e non vai mai “in rouge”, perchè sai che poi non recuperi: forse lo fai solo sul finale della regata o in certi momenti.

Mi stai citando l’Ocean Race, ma quella che hai fatto, hai detto che potevate vincere, che cosa è mancato?

Intanto siamo arrivati terzi che è un risultatone, quindi insomma non è male.
Cosa è mancato? Direi nulla perché poi, purtroppo, come in tutte le competizioni, nei primi tre, nei primi cinque, il livello è talmente alto che non c’è un macro-errore come magari nella parte bassa della classifica.
In regata è sempre un osare, nel senso che la barca la porti sempre al massimo, e sei allenato per farlo, addirittura hai il computer con le telemetrie di bordo come nella Formula 1, per cui in quel momento lì, con quel vento lì, metti la vela giusta, non è che puoi dire “ne metto un’altra”.
Addirittura avevamo sempre uno schermo fuori dove c’era il “performance ratio”, cioè la percentuale rispetto alla polare della barca di quanto facevi in centesimi. Quindi eri sempre al 100%, oppure al 98-102%, navigavi sempre su quelle performances.
Sotto coperta c’era il navigatore che faceva la strategia in base al meteo, però è chiaro che in regata è sempre un osare, per cui magari un paio di volte abbiamo scelto le opzioni che non hanno dato il guadagno giusto, però altre abbiamo avuto dei guadagni, e non si può dare la colpa a quella volta lì.
È andata bene, perchè c’è chi ha anche disalberato.
Siamo stati anche in testa, proprio nell’ultima tappa, quella dalla Norvegia fino giù a Genova, quando abbiamo passato lo stretto di Gibilterra; lì, nel mare di Alboran, abbiamo preso una tempesta fortissima, la più forte che abbiamo preso in tutta la regata.
Dopo, quando è passata, abbiamo avuto poca aria, prima di arrivare a Tarragona, a Badalona: eventualità che succede in quei posti
Poi, prima del Golfo del leone, abbiamo ripreso un’altra bordata: c’era vento leggerissimo, si è rotta la vela, il code-zero, quello grosso, addirittura si è rotto il cavo davanti, anche se poi la vela l’abbiamo recuperata.
Ecco, volendo quello è stato un fatto negativo, ma per dirla tutta si è rotto il cavo della vela dentro, un cavo di kevlar di 12-13 millimetri pieno: nessuno l’aveva guardato, ed era vecchio, ma ti fidi, perchè quando cambi le vele hai il “shell di carico” su tutto l’albero, per cui ogni manovra è sempre molto oculata e controllata.
In navigazione mangi cibi liofilizzati, ne volevamo portare di più, è chiaro che per dieci persone sarebbe stato più peso, ma non abbiamo voluto influire sulla regata, tant’è che dopo aver perso la vela, negli ultimi tre giorni siamo rimasti senza acqua: più di quello non si poteva fare.
Per cui ti direi, è andata bene così.

Hai mai temuto per la tua incolumità nelle mini-transat?

No, diciamo che nelle mini-transat uno è giovane e poi anche un po’ incosciente, per cui c’è la parte della gioventù che ti aiuta molto, te la vivi come un sogno, un’avventura, sempre di corsa, non riesci neanche a capire quello che fai. Però se mi chiedessi di fare ora una mini-transat ci penserei molto, sinceramente.
Mi ricordo la prima, arrivai che mi ero buttato in acqua per togliere un timone rotto, e mi era venuta un’infezione perché mi ero tagliato con la resina. Ho tagliato l’arrivo, mi sono messo legato a una boa, lì a San Salvador, e quando mi sono svegliato mi avevano già ormeggiato la barca! Per cui ti dico che non riesci neanche a viverteli questi momenti, ma col senno di poi sono ricordi bellissimi.
In doppio, con Giovanna Valsecchi, ci siamo trovati bene, comunque qualsiasi cosa tu faccia sai che sei in due, e anche se prendi un po’ di più di rischi, sai che li controlli.
Con l’Ocean Race, invece, ci sono stati un paio di momenti che non pensavo che si spingesse così forte, e lì mi sono dovuto un po’ abituare. Pensandoci adesso, non sono stato in pericolo di vita, però quando devi bilanciare la barca, muovi i sacchi delle vele che stanno fuori in coperta; sono sacchi da 100-200 kg, li sposti in 4-5 persone, prima della virata, con la fiancata sopravento da una parte mentre i pesi dall’altra sono sotto vento…e lì sei sott’acqua, e un paio di volte, te lo devo dire, non è che mi sia piaciuto molto.

I tre oceani, l’Atlantico, il Pacifico e l’Indiano, qual è il più impegnativo e come li descriveresti?

In tutti gli oceani ti sembra di avere un ventilatore in azione che ti spinge sempre, ma sai di essere in regata o in trasferimento.
Invece sto rivalutando il Mediterraneo ed ho molto rispetto per questo mare. E’ un mare che non scherza, è un mare imprevedibile, soprattutto nei periodi invernali, autunnali, ma anche primaverili, senza tralasciare ciò che è successo ultimamente anche d’estate, nelle zone Golfo del Leone, Sardegna, Capocorso, Liguria, Stretto di Sicilia, ma anche nello stesso Adriatico, o nello Ionio: ho visto delle situazioni che insomma… non hanno nulla da invidiare all’oceano.
La fortuna è che comunque in Mediterraneo, soprattutto in Italia, hai un porto sicuro, vicino sempre, vicino magari a 100 miglia.
In Atlantico, nel Nord Atlantico, una volta passata la Coruña non c’è più nulla per un po’!  Però ti direi che a me piace proprio l’Atlantico, il classico, cui siamo tutti legati, forse perchè è quello che facciamo tutti per primo, e la prima esperienza non si scorda mai, anche se mi verrebbe da dire che, avendolo visto, è quello un pochino più cattivo.
Siamo partiti sempre dal Golfo di Guascogna, a ottobre, con la Minitransat, e quelli sono postacci. L’ho fatto sempre con barche un pochino più piccole, per cui con una barca da sei metri e mezzo è tosto.
Dicono che l’Atlantico, è un autoroute, ci può stare, nel senso che c’è l’Aliseo, che però c’è e non c’è…
Anche il Pacifico non è male, come difficoltà, ma è anche molto difficile per tutte le isole, isolette disseminate, i rif che trovi, ed hai quest’ansia di verificare sempre la navigazione.
Più che un oceano è… un “maraccio”, anche se magari poi in Pacifico uno è abituato a vedere i villaggi, Bora Bora. Hai davanti agli occhi sempre quest’acqua limpida, il mare sembra piatto. In realtà anche lì ho avuto delle belle sorprese, ecco, non me lo sarei aspettato.

Quando senti parlare del giro del mondo, non ti viene voglia di farlo con una barca tua? E nel qual caso, che barca vorresti?

Il giro del mondo: non è una cosa che va improvvisata, bisogna avere voglia di farlo, perché comunque anche se programmi tutto avrai una serie di difficoltà da affrontare e da risolvere.
Ora come ora, avendolo fatto sempre in regata, sono sempre molto legato alla performance, a spingere, a mangiare i liofilizzati, e non riesco a vederlo come qualcosa di tranquillo, anche se uno lo fa piano piano. È legato a una progettualità importante, a una preparazione importante, da fare sicuramente con qualcuno di affidabile, una persona comunque preparata, perché secondo me il mare, rispetto alla terra, è un po’ come la montagna, che non devi mai sottovalutare.
Pensa ad un trasferimento Roma-Milano in macchina: parti, la macchina è controllata, e se c’è una grandinata, ti fermi all’autogrill e poi ci pensi. In mezzo al mare se pigli una tempesta puoi rallentare, ma non c’è un autogrill per fermarti e ripararti, e comunque devi poi arrivare dall’altra parte.
Lavorando in marina sinceramente non concepisco il fatto di chiamare il soccorso al primo problema, quindi un giro del mondo forse lo vedrei meglio su una nave da crociera.

Parliamo di regate: io sto seguendo un po’ quello che sta capitando negli ultimi anni, la Vendé Globe, la Golden Globe Race, la Global Solo Challenge. Cosa ne pensi? conosci qualcuno che le ha fatte? Io conosco Riccardo Tosetto, mio paesano, che è arrivato quarto alla Global Solo Challenge

Conosco i ragazzi che vengono dal Mini Transat, con i quali abbiamo iniziato insieme, e che poi hanno fatto la Vendé Globe; Charlie Dalin ha fatto la Mini Transat dopo la mia, anche lui è un ragazzo progettista, non lo conoscevo benissimo, però in banchina l’ho visto diverse volte.
Clarissa Crémer, la conosco bene, abbiamo fatto la Mini Transat 2017 insieme.
Poi ho fatto diverse regate con Justine Mettraux che deve essere la prima che ha fatto, ed aveva come sponsor svizzero, TeamWork,
Pensando alle regate io penso che ognuno è libero di viversi il mare come meglio crede, vivere le passioni in maniera normale, l’importante è che lo faccia in sicurezza: non sono uno di quelli che dice, «ah, lui ha fatto il Vendée Globe, il Globe Ocean Race oppure come l’ha fatto Mura…» purtroppo è brutto perchè ognuno deve guardare alle proprie tasche.
Io son partito con le prime mini-transat, con cui veramente era tutta un’avventura e ci si dava una mano, francesi, inglesi, italiani; anche la marina militare fa lo sport della vela, ma non con una squadra che deve vincere.
Poi se uno vince è meglio, ma l’obiettivo è preparare una persona ad affrontare il mare in tutte le condizioni, in sicurezza, a viverlo serenamente, perché poi, per stare tanto in mare, bisogna avere un ambiente, un equipaggio sereno.
Ora, se uno entra sull’ottica sportiva e comincia a dire che vale più il Vendée Globe di quell’altra regata, è un altro discorso, ma secondo me uno va in mare e si diverte se c’è della sana competizione.
Se uno ha il sogno di fare il Giro del Mondo in regata come ha fatto Riccardo, va benissimo, mentre partire dal nulla per farsi un Giro del Mondo senza assistenza, lo vedo più pericoloso.

I foil, non credi che pur avendo cambiato il mondo di regatare, abbiamo fatto perdere di spettacolarità alle regate?

Mah, no, la vela del futuro, di alta competizione, è il foil, ormai è dichiarato, dai ragazzi giovani che fanno il moth wing foil, la Vendée Globe, la Coppa America.
Una volta si diceva… le barche di legno… poi è arrivata la vetroresina, ed è cambiato tutto; non si può tornare indietro, oggi tutte le barche sono di plastica, carbonio, resina. Una volta per andare in poppa c’era lo spinnaker, e c’era l’equipaggio per strambare, poi è arrivato il tangone, ed ora hanno tutti il gennaker e nessuno si lamenta.

Hai mai pensato alla Vendée Globe? O meglio, Marivela potrebbe essere interessata?

No, io non posso rispondere per la Marina Militare. È come il sogno di chi parte per fare una mini-transat in solitario, è chiaro che poi il sogno ultimo è … comunque già fare una mini-transat è realizzare un sogno, per cui uno la lampada di Aladino non è che la spreme.  Io ne ho fatte quattro, sempre molto all’avventura, però va bene così, per cui sono stracontento.  Fra una e l’altra lavoravo in cantiere, poi mi licenziavo, e la stabilità che ho avuto entrando in Marina è stata notevole e la ringrazio.
Mi permette di pensare a un futuro in mare, non solo come atleta, in solitario, in doppio, o anche in equipaggio, ma anche fare il formatore, e comunque sono anche ingegnere, quindi anche come tecnico: domani si vedrà.
Da poco poi ho avuto anche un figlio, per cui affrontare il giro del mondo, che sia in crociera o durante una Vendée Globe o Global Ocean Race, ci penserei, perché è una scelta che comunque impone una preparazione importante, al di là della regata.
La regata comunque la devi fare con un approccio, una voglia e una resilienza notevole per superare tutte le difficoltà che bisogna affrontare, ed è una cosa che comunque ti segna fisicamente, mentalmente per diversi mesi.  Te lo avrò detto anche Tosetto, per cui ci penserei.
Comunque sì, mi piacerebbe, anche se sinceramente ora con l’età inizio a essere un po’ al limite: dovrei pensare al massimo alla prossima, però sarei già in ritardo, perché con la preparazione che c’è ora, con i soldi….

Ah! Ci vogliono tre anni di preparazione, minimo.

Sì, quindi vuol dire che devi avere già una barca, oltre a prepararti fisicamente, mentalmente, quindi insomma, non si scherza… e in solitario ancora di più.

Un’altra domanda, il mare per andare in barca o la barca per andare per mare?

Mah, essendo in Marina Militare, essendo comunque ingegnere, un navigatore, per me la barca è un mezzo per spostarsi e godersi il percorso.
Non è sicuramente la voglia di salire sulla barca e stare in porto il sabato e la domenica.
Per me la barca significa navigazione, sia arrivare all’isoletta, girarci intorno e tornare dopo due ore, o solo tirare su la randa e fare una bolina; ma anche un percorso che inizia allestendola da terra, con la preparazione e la cura.
Non vedo la barca come qualcosa che sta all’ormeggio, ferma lì, e accendi il motore una volta ogni tre mesi. Vedo la barca come una macchina, che però uno se la vive.

C’è stato un navigatore o un velista che hai avuto come esempio?

Mah, te ne direi tanti, ma, abbiamo talmente pochi modelli italiani rispetto ai francesi e gli inglesi, che invece ne hanno molti, per cui ti direi sicuramente Straulino, che vedo al pari di Tabarly, perché comunque era in Marina Militare. È riuscito all’epoca a fare le regate con il Grifone, e vincerle, ma soprattutto ha fatto un percorso di crescita con le persone sia nella Marina Militare che fuori.
Quindi non vedo solo figure finalizzate a fare la regata in solitario, questi sono due miti della Vela, personaggi fuori dai tempi, che hanno avuto anche una funzione sociale, perchè uno sportivo, finché vince, vince e basta, ma alla fine non sarà più il vincente, e dopo di lui arriverà un altro.
Tabarly e Straulino, hanno dimostrato in tempi non sospetti che si poteva fare sia Vela classe olimpica, che Vela in equipaggio, che Vela IOR.  Ora uno nasce su un laser, o su un 470 e muore lì come atleta; c’è il marinaio che non sa tirar le scotte e c’è il velista che non sa entrare in un porto e uscire di notte.
Quindi loro due sono due miti.
Poi ti direi Simone Bianchetti, perché era uno che arrivava in fondo, Giovanni Soldini, perché è quello che ha spinto tutta l’Italia a sognare l’oceano, ti direi Andrea Romanelli, perché era un tecnico, un ingegnere, ha progettato FILA  di Soldini, ma ti direi anche Enrico e Tommaso Chieffi, che sono due figure che hanno fatto tanto.
Però, secondo me, queste due figure, Tabarly e Straulino, mi hanno colpito perché hanno un percorso che va oltre lo sport.
Io ho sempre avuto vicino la Marina Militare, l’Accademia di Livorno, per cui mi hanno un po’ forgiato, però penso che all’epoca, forse qualche generazione prima della mia, avrebbero potuto essere Slocum, Moitessier.
Straulino e Tabarly, anche grazie al fatto che avevano la Marina Militare dietro, sono stati i primi che hanno dato un senso a una vela professionista di un altro livello, hanno fatto un passo in avanti, con il fatto che si costruivano le barche dentro gli arsenali, prendevano le persone degli equipaggi dalle navi e andavano a fare le regate, dimostrando che non è velista solo quello che passa tutto il tempo a fare vela da quando nasce, ma puoi avere il piede marino, se sei già in Marina Militare.

Credi che per un giovane ci sia posto per vivere di mare o come regatante o come skipper?

Io penso che se uno vuole inseguire la propria passione non ci siano limiti, anche a costo di fare dei sacrifici. Credo che a chi ama il mare e vuole fare della propria passione una professione, la Marina Militare possa offrire uno sbocco. Poi non so se riuscirà a vivere di regate o fare regate, però è già un aspetto importante alzarsi la mattina e andare a lavorare vedendo il mare, per cui quello che posso consigliare a una persona che si sente il mare dentro è di valutare anche il futuro in Marina Militare, come sportivo ma anche come carriera.

Mi dai tre caratteristiche che deve avere un regatante per arrivare al tuo livello?

Non so se devo considerarmi un regatante, però per essere un buon marinaio, del mio livello, che fa anche regate, di base ci vuole una passione per il mare enorme, perché la passione è quella che spinge, come in tutte le cose, ad andare oltre e a superare tutte le difficoltà.
Ci vuole anche testardaggine, resilienza, capacità, perché comunque lavorare in mare è dura, come per tutti i lavori di mare, sia con un peschereccio sia nella marina mercantile, perché comunque sei sul mare, quindi passi “dal freddo al caldo”, e stare in equipaggio non è facile quando stai con le stesse persone per mesi.
Alla fine parliamo sempre di talento, e secondo me il talento va creato, va costruito, va coltivato; per svolgere questa attività ci vuole tanto impegno, tanto studio, poi sicuramente anche la capacità; però sai cosa metterei come ultima?
Avere la capacità di lavorare in squadra, perché comunque, devi avere la capacità di copiare con gli occhi da tutti, devi essere umile anche se sei arrivato a certi livelli; quando ti inserisci in circuiti importanti, e ti trovi in barca con dei professionisti, comunque devi essere anche rispettoso, sapere stare al tuo posto,
Ecco che il team working, la capacità di stare insieme, è fondamentale anche per crescere più velocemente… e imparare anche a sopportarsi.

Il ricordo più bello da quando navighi e il più brutto.

Eh…il più bello… ce ne sono tanti, perché ti direi la prima minitransat, poi ne ho rifatte quattro,  finire il Nautico, fare ingegneria, fare il Figaro e vincerlo, fare il giro d’Italia, l’Ocean Race,  fare il Pacifico con l’equipaggio, navigare su spirito di Stella con ragazzi disabili; ogni volta è stata un’emozione per cui non c’è proprio un ricordo in particolare che mi viene in mente.
Ma, ripensandoci, la cosa più bella che mi viene in mente ora, anche grazie alla Marina Militare, è che a luglio mi sono sposato con Giovanna, dopo anni di navigazione insieme, quando ancora non eravamo fidanzati, e a novembre abbiamo avuto un figlio. Per cui il ricordo più bello, non è tanto il fatto che mi sono sposato e avuto un figlio, ma il coronamento di una vita insieme, il fatto che la Marina Militare mi ha fatto conoscere quella che è diventata mia moglie, e questa è una cosa bellissima.

È bello quello che dici, perché esservi conosciuti in Marina, avere avuto delle esperienze assieme, ed essere arrivati a questo punto della vostra vita, è molto, molto bello.

Certo, condividere passioni in comune, secondo me è la cosa più importante… ho raggiunto la serenità prima con la Marina Militare e poi con la famiglia; mi è stato possibile inseguire e raggiungere i miei sogni, lavorando con determinazione, ed alla fine ho capito che nella vita è tutta una sfida, e fare qualcosa senza un obiettivo non significa niente.
Facendo il regatante, ogni volta è una sfida che vuoi raggiungere, e cresce anche l’ambizione, per cui alla fine la felicità è solo un momento che ti godi tre secondi dopo aver tagliato la linea del traguardo, perchè poi pensi a tutto quel che devi fare per la prossima regata…e non rimane niente altro.

Da grande cosa vorresti fare? Sempre in Marina Militare? Vuoi diventare ammiraglio?

No, io no, no, ammiraglio no. Mi piacerebbe, con tanta umiltà, e lo dico sottovoce, inseguire la scia di Straulino, nel senso di far crescere i ragazzi, insegnare l’amore per il mare, insegnare che non c’è solo una regata, che bisogna essere prima marinai e poi regatanti, e soprattutto non fissarsi con le imprese sportive estreme, perchè prima bisogna imparare a gestire le situazioni, magari anche in equipaggio, poi passare al doppio, e poi passare al solitario, cioè tutto al rovescio di come ho fatto io.

Hai passioni oltre al mare?

No, il mare mi soddisfa integralmente, come lavoro mi consente di fare anche attività fisica, inoltre vado in bici, e ultimamente sto iniziando ad appassionarmi ai foil e fare anche allenamenti per capire un po’ come va, come funziona, ed alla fine non è una passione diversa, è sempre un’attività all’aria aperta e in mare. Quello che sto facendo con la Marina Militare va benissimo e anzi proprio mi soddisfa.

33 – Siamo in chiusura, l’ultima domanda che ti faccio: quando e se ti fermerai, cosa c’è dietro l’angolo per te?

Mah, non lo so, io spero che dietro l’angolo ci sia sempre il mare, per cui, ripeto, quello che mi dà la Marina Militare mi soddisfa molto. È sempre una sfida continua e se arriverà il momento in cui non farò più regate, in doppio, o in equipaggio, mi piacerebbe formare ragazzi e farli crescere, sempre possibilmente stando in mare con la Marina.
Per cui non mi vedo come una persona che si ferma, e avendo vissuto la vela non solo come sport, ma anche come formazione, ho la possibilità di vedere uno sviluppo futuro, sicuramente accettando che gli anni passano, e ci sono molti ragazzi giovani che “cercano il mare”, e sono motivato a spingerli nell’affrontare questo percorso.