giovedì, Dicembre 18, 2025

Aprile – Massimo Cerracchio

Sono spesso in contatto con Antonio Solero e recentemente mi ha proposto di incontrare un personaggio, un amico, che aveva compiuto alla fine degli anni ’70 due imprese, una traversata atlantica e un viaggio memorabile all’isola di Spitsbergen con una barca da 7,33 metri.

Avrei poi potuto farlo conoscere agli amici di RTM, magari con un’intervista, e ho pensato che sì, poteva essere interessante.

Poi, neanche a farlo apposta, mi dice che vive a Brunico con sua moglie Carla e che ci avrebbe invitato a pranzo per una chiacchierata. E ancora una volta mi sarei trovato a incontrare navigatori che vivono davanti alle montagne e non… davanti al mare.

E così una mattina sono partito da Ortisei con due bottiglie di prosecco per lui e una pianta di giacinto per lei, e in un’oretta senza traffico lungo la Val Pusteria sono arrivato giusto giusto davanti alla casa di Massimo, dove avevo appuntamento con Antonio.

Suoniamo il campanello, ci apre una bella signora e dietro a lei mi trovo davanti un 85enne in ottima forma, che poi ci terrà a dirci che fino all’anno prima andava a sciare sulle piste del vicino Plan de Corones. Siamo subito stati coinvolti in un’atmosfera cameratesca, abbiamo chiacchierato molto delle sue esperienze, gli ho fatto molte domande su argomenti che mi sarebbero stati utili per l’intervista, ma soprattutto mi hanno incuriosito i suoi racconti, al punto che poi, a casa, ho cercato in internet se fosse disponibile una documentazione sui suoi viaggi, e ho trovato alcuni articoli di oltre quarant’anni fa che con una certa difficoltà ho ricostruito in due cartelle, ricavandone due racconti molto interessanti, che riguardano due viaggi compiuti negli anni ’70…

Per ora mi limito a presentarvi Massimo Cerracchio.

Chi è massimo Massimo Cerracchio: dove è nato, che studi ha fatto, la sua giovinezza e il rapporto con il mare.

Non sono un “navigatore… che viene dalla montagna”, come scrive Mario, ma un aspirante marinaio che viene da Napoli, dove c’è il mare. Il mio babbo mi portava a pesca con lenza di fondo su una barchetta a nolo sulla quale vogavo con entrambi i remi “alla marinara”, cioè in piedi con la faccia rivolta verso la prua, avendo cura di affondare i remi in posizione verticale e di riportarli in avanti dopo la vogata in posizione orizzontale.

Lo stesso babbo mi portava sin dall’inverno del 1946, avevo sette anni, a Roccaraso, distrutta dalla guerra (era sulla linea Gustav), per brevi gite domenicali con gli sci dotati di vere pelli di foca. Si allacciavano ai legni di frassino senza lamine, dopo averle fissate sulla punta dello sci, con un tirante di fettuccia sulla coda e due cinghiette trasversali, che non impedivano alla neve di entrare tra lo sci e la pelle di foca, formando degli zoccoli terribili. La colla per le pelli sintetiche e le lamine sono arrivati molti anni dopo.

Il mio babbo mi ha così indicato due orizzonti di vita, ai quali ho aggiunto a diciotto anni la terza dimensione, quella dell’aria, dopo aver letto sul bando di concorso per l’Accademia Aeronautica questa frase, sullo sfondo di un piccolo aereo da addestramento: “Ci insegnò a evoluire nel cielo, ci abituò al coraggio e alla fiducia in noi stessi: diventammo Aviatori!”. Sono stato un buon pilota professionista per quarantaré anni, tant’è che sono ancora vivo!

Ho sposato a ventidue anni una bellissima ragazza napoletana che mi ha dato due fantastiche bambine, Claudia e Sara. Ho abbandonato la casa coniugale nel 1972, con enormi complessi di colpa nei confronti di Angela, moglie sempre fedele, alla quale ho sempre voluto bene ma che ha sofferto molto per il mio abbandono, e ho cercato con tutte le mie forze di stare il più possibile vicino alle piccole.

Poi Claudia, con i capelli castani, laurea a pieni voti in Economia, ci ha lasciati a trent’anni in un banale incidente d’auto, mentre Sara, con i capelli rossi, ha ora cinquantaquattro anni ed è molto nota nel mondo romano come psicoterapeuta dell’età evolutiva.

Ho avuto molte amiche, sul mare, a terra e in volo, finché ho trovato la mia seconda moglie Carla tra i monti d’ Abruzzo, dove siamo saliti per oltre quindici anni con gli sci su tutte le vette dei gruppi di Gran Sasso, Maiella e Velino-Sirente, dei Sibillini e sul monte Etna, in scialpinismo in Francia, Svizzera e Austria, con indimenticabili, lunghe e gioiose discese con i nostri comuni amici romani. Con guida alpina siamo saliti con gli sci sul Monte Bianco e sul Rosa, e da soli sul Gran Paradiso. Carla mi ha donato nostro figlio Michelangelo, che ora ha ventisei anni, laureato in Scienze politiche, indirizzo Studi internazionali, attualmente impegnato in un viaggio intorno al mondo via terra, su treno, pullman e navi, senza prendere aerei. Sono innamorato di Carla da quando l’ho conosciuta e fino ad oggi.

Finora ho vissuto la mia lunga vita, tra grandi gioie e altrettanto grandi dolori, protetto dalla mia buona stella o, se preferisci, da mon ange gardien. Confido che la mia buona stella mi accompagnerà e mi sarà vicina fino al mio ultimo giorno.

Avevi già un “idolo”? Moitessier, Tabarly?

Non ho conosciuto nessuno di persona. Un idolo per me era Francis Chichester con il suo Gipsy Moth IV, un inglese speciale, che guarda caso era anche un aviatore, e festeggiava in smoking il suo compleanno in pieno oceano, e si barricò nella sua barca perché non voleva andare in ospedale, prima di morire. È stato per me un esempio di vita, al contrario del suo contemporaneo eroe negativo Donald Crowhurst, disperso in mare a trentasette anni durante la Golden Globe Race, dopo avere finto di fare il giro del mondo in solitario e senza scalo.

Raccontami della navigazione al Grande Nord: che anno era? Mi sembra che tu avessi quarant’anni e Riccardo venti… pensavate a un record oppure era solo un’avventura?

 L’isola di Spitsbergen (che significa “montagne aguzze”) nell’arcipelago delle Svalbard (“terre fredde”) l’ho raggiunta nel 1980, dopo avere attraversato l’Atlantico nel 1974, cioè cinquant’anni orsono. Il viaggio nel Grande Nord non è stato né un’avventura né un record, ma solo un viaggio per mare e… per i canali di Francia e Gran Bretagna. Anche se sapevo che se andava male potevamo anche non tornare, non ci ho mai pensato più dopo la partenza, perché avevo una fede incrollabile nella mia barchetta.

Com’era vissuta la navigazione “fuori porta”? Soprattutto oceanica, al Grande Nord?

Oltre il circolo polare (lat. 66,73°N) la bussola comincia a diventare inaffidabile, la variazione magnetica sulle carte è a doppia cifra (il polo magnetico non ha una posizione fissa, ma la bussola di una barca non può orientarsi nel raggio di 2000 km da esso, perché le onde elettromagnetiche entrano verticalmente nella superficie della Terra e quindi in tale raggio la bussola non riceve segnale sufficiente) e ho usato per fare il punto nave sia un sistema per il quale basta avere una radiolina ricevente o il mio radiogoniometro Seafix, che il sestante per rilevare la latitudine (la longitudine conta poco in un viaggio verso Nord).  Alle alte latitudini è stato possibile qualche volta fare due rilevazioni di latitudine, una al passaggio del sole al meridiano di giorno ed una… rilevando l’altezza massima del sole di mezzanotte! Infine, last but not least, ho seguito l’angolazione di provenienza delle onde rispetto alla rotta (i venti sono abbastanza stabili in Artico d’ estate).

Certo che la strumentazione, i materiali, l’attrezzatura non erano ancora sviluppati per certe imprese!

Non abbiamo avuto difficoltà di navigazione e i materiali e l’attrezzatura degli anni ’80 sono risultati adeguati. Del resto le grandi navi baleniere a vela del XVIII secolo, con le loro potenti vele quadre, già visitavano l’isola di Spitsbergen.

Questa navigazione non veniva percepita come pericolosa, soprattutto con una barca piccola? 

Tutte le piccole barche sono potenzialmente pericolose in alto mare a qualunque latitudine, perché il mare è sempre infinitamente più forte di noi, ma basta una fede incrollabile nella propria barca, piccola che sia.

Avevi preso contatti con le ambasciate? E per la lingua?

No. Parlo bene l’inglese e il francese, in Norvegia tutti parlano bene l’inglese e perfino i commissari politici della base mineraria russa di Pyramiden se la sono cavata con l’inglese.

La barca: Mamaroa è stata la prima? Come è nata? Quando? Perché proprio quella barca? Dove l’hai preparata?

Mamaroa, con il suo nome che assomiglia a quello di un atollo dei mari del Pacifico, altro non è che l’acronimo dei quattro amici che l’anno comprata nel 1970: Massimo, Maurizio, Roberta moglie di Maurizio e Angela mia moglie. È stata la mia prima e ultima barca. Il guscio vuoto è stato acquistato direttamente dal CNSO (Constructions Nautiques du Sud-Ouest), su progetto del celebre architetto navale Michel Bigoin. L’allestimento degli interni è del Cantiere navale Bani & Cerulli di Porto Santo Stefano, comune di Monte Argentario.

Che ancora aveva? Quanti winch? Quanti metri di catena?

Due ancore, una Danforth per fondali misti e una CQR per quelli sabbiosi; quattro winches, due per bordare le scotte dei fiocchi e due a piede d’albero per le drizze di randa e dei fiocchi, e una catena di circa 10 metri, completata da circa 40 metri di robusta corda, docile da abbisciare.

L’esperienza di navigare: da dove nasce?

L’esperienza di navigazione nasce nelle aule e sui tavoli dell’Accademia Aeronautica, fondata nel 1923 e figlia dell’Accademia Navale, continua con l’uso del sestante sul DC-8-43, quadrigetto dell’Alitalia negli anni ’60, e infine è affinata nelle crociere di Mamaroa nel Mediterraneo dal 1971 al 1974, prima di attraversare l’Atlantico.

La traversata dell’oceano: quando? Sensazioni della prima volta, ricordi e problemi?

La traversata atlantica nel novembre 1974, 3000 miglia da Gran Canaria a Martinica in venticinque giorni, è stato il mio primo oceano con Annette, io trentacinque e lei ventisette anni, completato con oltre 2000 miglia di crociere visitando “tutte” le isole di Sopravento per circa due mesi, approfondendo il mio francese con lei e con i colorati e belli abitanti della France d’outre-mer al ritmo incalzante della beguine créole, che è un inno alla vita. Poi il rientro a Marsiglia di Mamaroa nella pancia di una nave da carico, mentre noi due tornavamo a Parigi con un Jumbo dell’Air France, e infine il ricongiungimento a Marsiglia e il ritorno a Porto Santo Stefano.  In quegli splendidi sei mesi passati insieme abbiamo vissuto un sogno a occhi aperti, soltanto sole, vento e mare, nessun problema per la nostra barca e tanto sereno affetto tra noi due.

Da dove è nata l’idea del viaggio in Artico? 

L’idea di andare a Spitsbergen è nata guardando una carta a piccola scala della fine degli anni ’30, dove il meridiano 0° di riferimento passava per l’osservatorio di Monte Mario a Roma e non da Greenwich in Inghilterra, la “perfida Albione” di quei tempi. Guardando quella carta vedevo che questo meridiano 0° passava esattamente all’ingresso dell’Isfjorden, nel cuore dell’isola di Spitsbergen, e decisi che questo viaggio per meridiano avrebbe completato la mia esperienza dopo il viaggio per parallelo.

La scelta del compagno di viaggio, Riccardo De Riso: chi è?

Riccardo De Riso, per il quale nutro un affetto quasi filiale, ha sostituito in barca Annette. La nostra storia si era esaurita, anche se ci vediamo ancora (lei ora ha settantasette anni) con tanta tenerezza, per cui cercavo un giovane compagno per questo viaggio certamente più impegnativo. Riccardo si presentò in tuta da lavoro e cassetta degli attrezzi nel capannone dove preparavo la barca e mi disse: “Eccomi, che c’è da fare?”.

C’erano altre scelte? Perché lui?

Il rapporto con Riccardo è stato quello che spesso si determina quando tutto l’equipaggio vuole raggiungere lo stesso obbiettivo. Suo padre era un grande alpinista romano, scomparso sul sentiero che porta al campo base dell’Everest, dove qualche anno dopo ho visitato la sua tomba di pietre accatastate, anch’io diretto alla stessa meta in compagnia di Rita, una vera atleta e biologa all’ospedale S. Camillo di Roma. Forse Riccardo è stato attirato dalle montagne aguzze di Spitsbergen? Glielo chiederò.

Come è stato scelto il percorso?

Il percorso è stato pianificato partendo sempre dall’esperienza in Accademia Aeronautica e nelle successive applicazioni… nautiche. La via di Gibilterra e la successiva risalita controvento del Portogallo erano state scartate per accorciare di molto il percorso attraversando, con l’albero smontato, il Canal du Midi, costruito ai tempi del Roi Soleil, che ti porta a Tolosa con discesa lungo la Garonna fino a Bordeaux, nel cuore del golfo di Biscaglia. Poi siamo risaliti lungo costa fino a Brest, quindi Canale della Manica, mare tra Irlanda e Inghilterra, e infine due canali mantenendo l’albero montato, Crinan e Caledonian fino a Inverness, e poi in acque libere a Lervick, nelle isole Shetland. Infine direttamente a Bodø, oltre il circolo polare, e l’ultimo lungo balzo a Spitsbergen via Andenes, nelle isole Vesterålen.

L’esperienza di viaggiare nei canali della Francia, all’andata e al ritorno, com’è stata?

Del Canal du Midi ho già detto, aggiungo che questo canale è solo per piccole barche con pescaggio fino a circa 1,30 metri, ho saputo di barche più grandi che sono tornate indietro! In generale la strategia del viaggio prevedeva un atteggiamento prudente per accorciare il più possibile il percorso ed evitare pericoli inutili.

 

Navigazione: più facile all’andata o al ritorno?

Il ritorno è stato più facile, abbiamo seguito la costa norvegese dopo Tromsø, protetta da centinaia di isolette che la riparano dal mare aperto (i norvegesi la chiamano Indreleia, cioè “mare interno”), ma tra Stavanger e il porto di IJmuiden in Olanda, attraversando il mare del Nord in tutta la sua lunghezza, abbiamo dovuto subire una burrasca da nord forza 9 durata due notti e un giorno (annunciata dal preciso meteo inglese). In mare aperto, quando non si può ripararsi in breve tempo (le coste di Inghilterra a ovest o di Danimarca a est erano irraggiungibili e al traverso di un mare con alte onde e ormai bianco di schiuma e frangenti), la nostra piccola barca non aveva altre opzioni, doveva accettare la sfida. Mamaroa si è comportata benissimo, abbiamo percorso oltre 200 miglia senza vele a riva (gli inglesi dicono on bare poles), conducendo scomodamente la barca dalla timoneria interna, due ore ciascuno al timone, con lo sguardo rivolto a poppa per non farsi traversare dai frangenti, luminosi anche di notte, che spesso rompevano inondando il pozzetto (avevo per fortuna dimezzato la sua superficie e aumentato il diametro degli scarichi per facilitarne lo svuotamento).

Navigare sulla Senna e a Parigi: emozione? Impatto con il pubblico?

Giunti nel grande porto olandese di IJmuiden planando sulle onde e guadagnando con gioia le placide acque del porto, dopo due giorni di meritato riposo abbiamo poi seguito la costa fino al porto francese di Dunkerque di storica memoria e quindi, disalberata Mamaroa come per il Canal du Midi, attraverso i dolci paesaggi del fiume Oise e poi della Senna, siamo giunti a Parigi, dove siamo rimasti ormeggiati per una decina di giorni sulla rive droite presso il Jardin des Tuileries, di fronte all’allora stazione ferroviaria del Quai d’Orsay. Ho lasciato la barca per andare a salutare le mie figlie e i miei genitori in Italia, mentre Riccardo è rimasto padrone di Parigi, che pare gli abbia regalato la graditissima compagnia di una giovane parigina!

Al mio ritorno abbiamo continuato lungo il Canal latéral à la Loire fino a Digione e poi la lunga cavalcata lungo la Saone; infine, dopo Lione, sul grande Rodano con la corrente in poppa fino alla foce e quindi, riarmato albero e attrezzature veliche, a Marsiglia e Genova. Mamaroa ha avuto l’onore di essere esposta in prima fila al XX Salone Nautico e Riccardo ha ricevuto la visita di un’altra fidanzata, questa volta romana, secondo la bella tradizione degli uomini del mare. Infine il viaggio si è chiuso alla foce del Tevere, a Fiumicino, perfettamente in orario come pianificato. Lì ho riabbracciato le mie figlie Claudia e Sara, loro sono state il meritato premio per questo lungo viaggio. Guardando sulla carta, abbiamo disegnato un percorso di circa 7000 miglia a forma di un otto molto allungato, che si è toccato in un solo punto, nei pressi della città norvegese di Bodø.

La navigazione, certamente più facile al ritorno che all’andata, si è svolta senza difficoltà, utilizzando i fari per tracciarne il rilevamento sulla carta, il mio ottimo Seafix per la radionavigazione, il sestante all’occorrenza e, alle alte latitudini, anche la direzione di provenienza del moto ondoso in mancanza della bussola. Circa Parigi e la Francia, che considero la mia seconda patria, lì mi sento a casa, anche perché Annette abitava, quando era a Parigi, nella bellissima casa dei genitori in Rue d’Argenteuil 8, una parallela di Rue de l’Opera, Premier Arrondissement, a poche decine di metri dall’ormeggio… di Mamaroa in sosta!

Il rapporto con il freddo e il comportamento del corpo: rallentamento?

Non abbiamo sofferto per il freddo, a parte l’episodio di Longyearbyen in cui abbiamo rischiato di morire, mentre scrivevamo cartoline a casa comodamente seduti sulle nostre cuccette, per le esalazioni di gas mortali (ossido di carbonio?) dal tubicino in rame che alimentava la stufa a gas. Fin dalla partenza da Andenes e fino al ritorno a Tromsø circa quarantacinque giorni dopo non abbiamo fatto una doccia, ricoperti come eravamo di calzamaglia, almeno due paia di pantaloni, maglie da carne in lana, vari strati di magliette e maglioni, il tutto ricoperto da un’ottima tuta impermeabile norvegese di Helly Hansen con accessori, guanti e berretti per quando dovevamo uscire per cambiare una vela o altro. Ovviamente ci siamo cambiati alcuni indumenti in barca, ma senza toccare la tuta a pelle che ci ricopriva dalle caviglie al collo. Quando ci siamo concessi un pomeriggio in piscina coperta a Tromsø, sulla via del ritorno, tra la meraviglia nostra e dei norvegesi presenti nello spogliatoio, la tuta a pelle si è portata dietro… lo strato di pelle vecchia, portando finalmente alla luce lo strato di pelle nuova da neonato che c’era sotto. I ragazzi norvegesi, ai quali avevamo raccontato da dove venivamo, sono venuti in fila a stringerci la mano, chinando leggermente la testa, un po’ come fanno i giapponesi.

Sensazioni del viaggiare nel silenzio dei ghiacciai?

Il silenzio dei ghiacciai non è silenzio, ma ha un suo rumore, i suoi scricchiolii, la vita acquatica che li circonda, gli uccelli di mare. Esiste quindi un “sound of silence“, come hai voluto chiamare la tua barca, che, non avendo noi un registratore di suono, non abbiamo potuto trattenere. Abbiamo però riempito quella mancanza di suono con una delicatissima musica, la Canzone di Solvejg del grande compositore norvegese Edvard Grieg, che per noi ha riempito degnamente il vuoto acustico. La magia della Canzone di Solvejg, durante le riprese ai piedi del ghiacciaio di Nordenskiold, il grande esploratore norvegese, racchiude tutto il mistero, la maestosità e la potenza della Natura in quell’angolo sperduto dell’Artico.

Il rapporto con la barca, cosa vuol dire fidarsi?

Fidarsi della propria barca come di sé stessi, direbbe Kant, è un “imperativo categorico”. Se viene a mancare, non si va da nessuna parte. Punto e basta. Quando si è in azione non c’è posto per la paura. Ovviamente occorre sentirsi preparati, non avere trascurato nulla nella preparazione della barca e del viaggio. Se ti dimentichi ago e filo per riparare una vela, non la potrai riparare. Pulcinella diceva: “P’ mmare nun ce stann taverne“. Quante volte ho pensato a Pulcinella, aggiungerei che non ci sono neanche negozi di nautica!

Percezioni dell’influenza politica russa sul modo di vivere? Minatori e abitanti erano contenti?

Nell’isola di Spitsbergen non c’erano abitanti stabili. Né nelle miniere né nelle infrastrutture, compresi i fari e l’aeroporto, quest’ultimo gestito in comune da norvegesi e russi. La gente lavorava lì e basta, ma con una differenza importante: i norvegesi venivano da soli, facevano turni di lavoro continuato per un paio di mesi e poi tornavano a casa per un periodo uguale di riposo, mentre i russi venivano con le famiglie e ci restavano per almeno un anno, con mense, scuole, biblioteche e alloggi (uno per famiglia) in comune, secondo il principio socialista del lavoro collettivo, anche donne e giovani in miniera. Abbiamo incontrato anche ragazze norvegesi molto indipendenti, che scavavano nelle miniere. Tutti apparivano motivati, anche se le due comunità vivevano separate, ma collegate per le situazioni di necessità. Noi ad esempio per visitare la base russa di Pyramiden abbiamo richiesto il permesso dalla base norvegese, che ci è stato concesso. I norvegesi guadagnavano molte volte più di quello che guadagnavano i russi.

Cosa mancava di più? E a voi cosa è mancato di più? I contatti con casa?

A me non è mancato praticamente nulla, per Riccardo non saprei. Ero tranquillo e mi godevo questa pausa dalla mia vita di lavoro, così inusuale ma per me irrinunciabile. I comandanti delle navi commerciali ci hanno talvolta consentito, forse per solidarietà di mestiere tra mare e cielo, di usare un telefono satellitare per chiamare a casa, e ci hanno anche regalato carte nautiche “scadute da poco” e aggiornate da noi, di piccola o soprattutto di grande scala, che si sono rivelate provvidenziali per la navigazione costiera in Norvegia: aprivamo i grandi cassetti nella sala di navigazione delle navi con l’acquolina in bocca! Forse la solidarietà tra uomini di mare e dell’aria nasce proprio dal fatto che operano spesso in due elementi simili, perché il mare supera abbondantemente le terre emerse, e il cielo avvolge tutto il nostro minuscolo pianeta. 

Avete mai pensato di demordere?

Non abbiamo mai pensato di demordere, “we’ll never give up“. Questa frase va spiegata e ampliata. Mia sorella Marina, laureata in Scienze politiche e insegnante a Napoli nelle scuole superiori, aveva tra le tante passioni anche quella per l’astrologia, una pseudoscienza che studia su basi pseudoscientifiche la descrizione delle pseudocaratteristiche degli individui. Marina decise quindi di descrivere la “mappa astrale” della sua famiglia nella quale, a differenza di mio padre e mia madre, ero compreso anch’io perché Marina era legata a me da grande affetto, nonostante le tante differenze caratteriali e politiche tra noi.

Il risultato della sua indagine astrale nel mio caso fu disastroso. Marte, il dio della guerra, era onnipresente nel mio quadro astrale e questo fu da tutti, nella famiglia di Marina, ma ripeto non in quella dei miei genitori, giudicato terribile in quanto in Marina e figli prevaleva l’idea della pace a ogni costo. Ma non da me, che in fondo avevo scelto l’Accademia Aeronautica e volavo (nel 1964, cioè sessant’anni fa) su velivoli da combattimento come l’F-104G, caccia intercettore supersonico che volava a Mach 2,2, cioè a oltre 2500 km/h. “Si vis pacem, para bellum“, questo pensavo, e vivo tuttora in buoni rapporti con Marte, con buona pace dell’astrologia, che resta una pseudoscienza. Io mi ritengo un combattente o, se volete, addirittura un guerriero.

Perdonatemi ora una breve digressione. Un pratico esempio, questo sì realissimo, viene da Winston Churchill, come non ricordare il film del 2017 L’ ora più buia? Il primo ministro inglese (ho una profonda stima per quella nazione) il 4 giugno del 1940, alla vigilia di una possibile e imminente invasione da parte della Germania delle isole Britanniche, fece un memorabile discorso alla Camera dei Comuni a Londra nel quale disse, tra le tante altre cose: “We shall fight on the beaches, we shall fight on the landing grounds, we shall fight in the fields and in the streets, we shall fight in the hills; we shall never surrender“.

Dove siete atterrati? Vi aspettavano? Riconoscimenti?

Siamo arrivati sul pontile di sbarco della cittadina di Longyearbyen alle due del mattino, cioè in pieno giorno, e lì alcuni operai bevevano una birra guardando verso la baia, completamente protetta da montagne da tutti i lati. Dopo qualche breve saluto, non parlando norvegese, ci siamo addormentati profondamente nelle meravigliose cuccette di Mamaroa, finalmente immobili e nel silenzio più totale, con l’intima felicità di essere arrivati dove volevamo arrivare.

Verso le nove, sempre in pieno giorno, fummo svegliati dal ticchettio di una mano che bussava sul tambucio: un autista ci aspettava per portarci all’ufficio del Governatore (la Norvegia ha ottenuto per mandato internazionale la giurisdizione sull’isola, dove però lo sfruttamento delle risorse naturali restava libero per tutte le nazioni).  In una casetta, sulla collina che domina il fiordo, il governatore fu gentile e veloce, ci dette il benvenuto, ci fece compilare le formalità di arrivo, poi aprì un grosso registro dove erano elencate tutte le barche e le navi giunte fin lì e annotò subito anche l’arrivo di Mamaroa. Cominciò a sfogliare con curiosità il registro all’indietro nel tempo fino all’inizio del XX secolo e poi ci disse sorridendo: “Voi siete i primi a essere arrivati fin qui con una barchetta a vela di 7,33 metri, questo registro esiste dall’inizio del XIX secolo, ma dubito che qualche lancia più piccola della vostra abbia mai percorso la rotta dalla costa norvegese fin qui!”.

A noi, oltre al primato, piacque la semplicità e la cortesia di questo grosso e incallito uomo di mare, con delle mani al confronto delle quali le nostre sembravano mani di bambini. Fummo insomma semplicemente felici.

Che fine ha fatto Mamaroa?

Mamaroa ha vissuto il suo destino fino in fondo. Dopo averla venduta a un mio amico comandante dell’Alitalia nel 1984, che a sua volta l’ha venduta a un medico di Latina, alla fine è stata comprata da uno svedese che la tiene nel porto di Malmö, nel sud della Svezia, proprio di fronte a Copenaghen. Proseguendo verso nord attraverso il Kattegat si giunge a Oslo, e quindi Mamaroa vive felice nel baricentro della civilissima Scandinavia. Il suo ultimo proprietario mi ha scritto che l’ha acquistata perché “era stata alle Svalbard”, che le ha cambiato il motore e che la utilizza per brevi crociere, invitandomi a veleggiare con lui. Vigliaccamente non gli ho mai risposto. Chi mi può spiegare perché, dopo un grande amore, si preferisce mantenerne soltanto il puro ricordo? Preferisco questo per Mamaroa, che per me navigherà per sempre nei mari del Nord, dopo averli solcati fino al limite della banchisa polare nella sua piena gioventù. Più oltre ci voleva un rompighiaccio, ma Mamaroa era stata costruita dal grande architetto Michel Bigoin “pour les régates et la petite navigation côtière“.

Ho vissuto con e per Mamaroa per dodici anni, dal 1971 al 1983. Dopo i due lunghi viaggi, per parallelo (1974-75) e per meridiano (1980), e dopo avere attraversato in lungo e in largo il Mediterraneo dal 1971 al 1974, e poi dal 1975 al 1979, ho continuato a veleggiare con lei per ancora tre anni. A fine 1983 mi sono fermato, ho capito che quella lunga storia d’amore con la mia barca era finita. Il 31 dicembre 1983 ho lasciato l’Alitalia, ho venduto la barca e ho ripreso le vie dei monti, felice di avere il sabato e la domenica liberi come tutti i comuni mortali, senza più dover andare a Singapore piuttosto che a New York o altrove nei fine settimana. Poi sono venuti ulteriori cambiamenti nella mia vita irrequieta, che riassumo qui brevemente per “inquadrare il soggetto”.

Mi ritengo uno spirito libero, ho sempre cambiato quando il cuore me lo comandava, lasciando prima l’Aeronautica Militare (1964) perché vedevo con terrore avvicinarsi le scrivanie dello Stato Maggiore mentre io volevo volare, quindi l’Alitalia (1983) perché non volevo invecchiare in alta quota mentre il mondo mi girava sotto e io volevo invece vivere nel mondo, poi anche la Partenavia, del Gruppo Alenia (oggi Leonardo), nel 1987.

In Partenavia ho lavorato come pilota collaudatore di produzione e istruttore ai giovani piloti della Polizia di Stato dal 1984 al 1987, ma soprattutto consegnando gli aeroplanetti bimotori a elica che uscivano dalla catena di montaggio in tutto il mondo, a bassa quota, senza pressurizzazione né antighiaccio. Gli americani la chiamano “bush aviation“, aviazione tra i cespugli, forse il massimo della gioia di volare, a parte l’F-104G, del quale ho già detto. Poiché avevo un contratto a prestazione, che mi consentiva di allontanarmi con l’approvazione dell’ing. Pascale, il titolare della Partenavia, sono andato due volte in Antartico con l’Armada della Marina Argentina e con la Fuerza Aerea della Repubblica del Cile, il cui pacifico motto era “Por la razón o la fuerza“.

Ho anche fatto, come già accennato, la via di Hillary fino al campo base dell’Everest, la vetta del Kilimangiaro in Africa e la vetta di oltre 6000 metri del monte Uturunco, una sconosciuta cima in Bolivia.

E per finire la Vitrociset (società privata di radiomisure) dal 1988, sul modernissimo bireattore Cessna Citation III, lasciata anch’essa nel 2000 perché avevo voglia di silenzio. Dopo la pensione ho infatti spento i motori e sono diventato pilota d’aliante, avevo già il brevetto, volando finalmente in silenzio, innamorato del “sound of silence“… fino a ieri!

Chi ha deciso di raccontare il viaggio? Perché tu non hai scritto nulla?   

Riccardo ha tenuto un diario giornaliero del viaggio che pochi giorni fa, dopo quarantaquattro anni, mi ha regalato in copia e che sarà essenziale per scrivere il mio libro. Io non ho scritto nulla del viaggio a Spitsbergen perché Riccardo, allora, era uno studente in bolletta come tutti i suoi coetanei e guadagnando con i suoi tre articoli si è ampiamente rifatto delle spese del viaggio. Sono però curioso di leggere il suo diario, anche per vedere quante volte, e spesso a ragione, mi ha mandato a quel paese!

Adesso a distanza di anni che cosa ti sembra di aver fatto? E con Riccardo de Riso vi vedete o sentite? 

A distanza di anni so che abbiamo avuto sempre la fortuna dalla nostra parte, perché sia noi due che Mamaroa siamo nati sotto una buona stella. I miei rapporti con Riccardo, e credo anche quelli suoi con me, sono rimasti sempre immutati, dopo l’intima convivenza abbiamo vissuto vite parallele incontrandoci qualche volta, ma ovviamente la distanza generazionale ci impediva di andare insieme… in discoteca!

Negli articoli ci sono i “riferimenti psicologici” scritti da Riccardo e ora, leggendo il suo diario, potrò eventualmente parlare dei miei, ma nell’affiatamento e credo nell’affetto ci siamo sempre stati, l’uno per l’altro.

Cosa pensi delle regate? Ne hai mai fatte? In solitario o con equipaggio?

Le regate non mi interessano perché la competizione non mi interessa. Posso però dire di essermi iscritto a due regate, perché Mamaroa era pur sempre una bella barca da regata, e precisamente una Siracusa-Malta e una Middle Sea Race, entrambe nel 1973. La prima l’ho vinta, alla seconda non sono stato ammesso.

La mia prima e unica vittoria nella mia unica regata è stata divertente perché ho vinto grazie al meteorologo dell’aeroporto di Catania, mio compagno di corso in accademia. La  dritta me l’aveva data per telefono la sera prima dopo cena e dopo che mi ero iscritto alla regata all’ultimo momento utile, suscitando nei siciliani una certa sorpresa, forse perché arrivavo proprio da Malta, ma molto più probabilmente a causa di Annette, che  sfoggiava con nonchalance un paio di hot pants ascellari, di quelli in voga in quel periodo…

Alla partenza, il mattino seguente, uscendo dallo splendido porto di Siracusa, tutte le barche diressero per capo Passero con rotta SSW bolinando con mura a sinistra per sfruttare la brezza di mare della calda giornata estiva, mentre Mamaroa da sola prese il largo bolinando ma con mura a destra con rotta SSE. Al tramonto la brezza calò e tutta la flotta si ritrovò senza vento sotto capo Passero, mentre noi continuavamo ad avanzare, sia pur lentamente.

Verso le 23:00 il vento cominciò a ruotare in senso antiorario e a rinfrescare, come previsto dal nostro informatore, per cui virammo di bordo e proseguimmo diretti su La Valletta, con andatura trionfale sopravento alle altre barche, infilando all’alba come tordi grandi barche di II e III Categoria IOR (il regolamento allora in vigore), arrivando primi assoluti nella nostra categoria, la VI, e lasciandoci alle spalle rispettabilissimi concorrenti di dimensioni ben superiori alla nostra.

Il commodoro del Royal Malta Yacht Club ci consegnò alla premiazione la Challenge Cup, una gigantesca insalatiera d’argento che potevamo tenere per un anno, inserendo una targhetta di ottone con il nome della barca nell’apposito spazio, da restituire al club prima della Regata dell’anno successivo, che avrebbe fatto il percorso inverso da Malta a Siracusa. La restituzione era sulla parola, come usa tra gentlemen inglesi e non, e la regata era la XXV dal 1948, quando la prima barca a vela veleggiò nel cuore di La Valletta, dopo la strenua difesa dell’isola durante la Seconda guerra mondiale. Lo stesso commodoro impedì la partecipazione di Mamaroa alla Middle Sea Race in autunno dello stesso anno, ma questa cavalleresca storia la racconterò nel mio libro.

La scelta di vivere a Brunico: la montagna un mare verticale?

La scelta di vivere in inverno a Brunico non è stata mia ma di mia moglie, l’architetto Carla Grasselli. Un giorno rientrando a casa mi annunciò che non avrebbe continuato a vivere a Roma e che intendeva trasferirsi, almeno nel periodo scolastico (Michelangelo, nostro figlio, avrebbe frequentato la prima media) da qualche parte in Alto Adige.

Naturalmente risposi subito, pensando a Garibaldi: “obbedisco!”. Individuammo il posto adatto e scegliemmo Brunico, dove c’erano montagne a sufficienza per la passione di Carla e ormai anche mia, cementata da oltre vent’anni di scialpinismo insieme in Appennino, e una scuola in lingua italiana per Miki (in Alto Adige c’è il bilinguismo).

Nostalgia del mare? Richiamo? Non ti manca?

Il mare non mi manca, con Carla e Miki ci siamo innamorati della Grecia, o meglio dei greci, che ci hanno insegnato tanto, anche della comune storia recente: parlando in inglese con un professore di liceo al quale comunicavo il mio imbarazzo per la guerra di aggressione fatta dall’Italia nel 1940, mi ha sorriso e mi ha risposto che quella era stata una guerra tra governi, ma i nostri due popoli sono uniti da un’intima fraternità millenaria, che proseguirà per sempre. Che gioia sentirselo dire, e poi la Grecia è il mare, quello di Mamaroa, l’antico mare della nostra comune cultura millenaria.

Il ricordo più bello e il più brutto.

Il ricordo più bello è quello della nascita dei miei tre figli: Claudia il 23.06.1966, Sara il 20.05.1970, Michelangelo il 02.02.1996. Il più brutto è quello della morte della mia primogenita Claudia, l’08.09.1996. Di lei ricordo la bellezza, l’intelligente ironia, la sua capacità di affrontare la vita a viso aperto e diretto, la sua complicità con me, assolutamente non ordinaria tra un padre e una figlia.

Hai ricordi di mare sotto la sua superficie?

Certamente, i primi tentativi da bambino erano nati quando il babbo mi comprò una maschera da snorkeling, come si direbbe oggi, guardavo in giù con emozione e facevo i primi maldestri tentativi di immersione a qualche metro dalla superficie osservando un saraghetto o una vavosa, pesce dal nome napoletano intraducibile.

L’Accademia Aeronautica, che ai miei tempi stava a Nisida, a 30 cm. s.l.m. ed era un ex idroscalo, aveva anche una sezione nautica dove abbiamo fatto le prime esperienze con piccole derive a vela. Durante il tempo libero ho fatto per mio conto immersioni con pinne e maschera, raggiungendo 10-15 metri di profondità.

La svolta avvenne negli anni ’65 e ’70, avevo rispettivamente ventisei e trentun anni quando, insieme con la prima moglie Angela, facemmo un corso per il brevetto di immersione con bombole ad aria compressa a 200 atmosfere, valido anche per immersioni fino a 20 metri con respiratori a circuito chiuso a ossigeno, come quelli usati dagli incursori della nostra Marina Militare nella Seconda guerra mondiale, che non inviavano bolle d’aria in superficie. La splendida cornice era quella della piscina da 50 metri del Foro Italico a Roma e Angela, napoletana come me, dimostrò un’eccezionale acquaticità, avendo già nuotato molto in piscina e nelle acque del golfo di Napoli da ragazzina.

Con il Brevetto in mano ci iscrivemmo al CRAS (Circolo Romano Attività Subacquee) e iniziammo un trionfale periodo di immersioni lungo le coste laziali, in Sardegna e in Puglia, dove feci strage di saraghi, ombrine, aragoste e cernie (la più grossa pesava 25 kg), ho qualche foto che conservo ancora. Allora si poteva ancora pescare con le bombole e il fucile, Angela si immergeva sempre con me, una volta le passai il fucile per un colpo sicuro in una tana di grossi saraghi, ma lei non riuscì a sparare perché, mi disse dopo, il sarago la guardava!

A Mogadiscio, dove andavo spesso con il DC-8 dell’Alitalia, ho pescato con il respiratore a ossigeno, più maneggevole e leggero rispetto alle pesanti bombole ad aria compressa (che non era consentito trasportare cariche sugli aeroplani). Mi immergevo fuori dal porto, nel relitto di un cargo affondato molti anni prima, solita mattanza di carangidi (simili ai nostri dentici) e, dentro il relitto, tra le lamiere arrugginite, taglienti e pericolose per il mio respiratore di gomma da incursore, ebbi la visione a pochi centimetri da me di Caterina, una gigantesca cernia del peso di oltre un quintale molto nota tra i ragazzi somali, che la incontravano spesso sui fondali fuori dal porto. Ovviamente non sparai per rispetto e anche per paura, questa bestia aveva decenni di vita, era già lì quando la Somalia era appena diventata una colonia italiana.

A Santa Teresa di Gallura conobbi alcuni “corallini”, pescatori quasi tutti napoletani che si chiamavano così per distinguersi dai “corallari”, pescatori che venivano dall’isola di Ponza e che usavano “l’ingegno”, ossia travi di ferro con attaccati pezzi di vecchie reti, e con questo sistema distruggevano il corallo esistente, recuperandone solo una piccola quantità. Ma i corallini avevano individuato delle grotte piatte sul fondo dove il corallo era intatto perché non a portata dei corallari, e vi accedevano scendendo a 80-100 metri. Avevo fatto amicizia con alcuni di loro, a volte li accompagnavo e, mentre facevano le oltre due ore di decompressione, mi immergevo per pescare ombrine e saraghi nei paraggi.

Una volta il mio amico Paolo Pane mi disse: «Massimo, vuoi scendere con me?». Andammo insieme, oltre i 50 metri il buio è assoluto, a 80-90 metri nella grotta il corallo illuminato dalla torcia acquista magicamente il suo eccezionale colore, dopo 10 minuti di raccolta alla quale partecipai anch’io iniziammo la risalita, fermandoci a 24 metri, dove il marinaio di supporto che seguiva le nostre bolle ci calò dal motoscafo due “narghilè” ai quali ci attaccammo per respirare. L’operazione durò circa due ore, passando da 24 a 12 a 6 a 3 metri finché il decompressimetro al nostro polso ci dette il via libera per salire a bordo.

Ma ormai stava per nascere Mamaroa, e iniziava la mia vita sul mare.

Sogni nel cassetto?

Il mio amico più caro, il napoletano Macario Principe, scomparso molti anni fa, che ha a lungo veleggiato con me su Mamaroa, di professione psicoanalista di grande prestigio in Italia e membro freudiano della Società Italiana di Psicologia (SIP), mi disse una volta che un uomo, dopo avere vissuto una lunga vita degna di questo nome, può tranquillamente addormentarsi nel sogno della morte, ma deve anche sapere che il detto popolare “chi vivrà, vedrà” andrebbe corretto in “chi morirà, vedrà”. Purtroppo lui è morto a cinquantotto anni e non ha vissuto la lunga vita che desiderava. Ma io sì, e spero di esserci per molti anni, insieme con Carla e i miei due figli, per inventarci ancora qualcosa di bello e utile, finché il destino lo vorrà.

 

Grazie Massimo