martedì, Dicembre 2, 2025

Dicembre – Ida Schiavi

Ti ho conosciuto quando Nini Sanna mi aveva detto di rivolgermi a te per ogni cosa… credo che sia stato il tuo mentore.

Sì ho imparato tutto da lui. I miei inizi sono stati con lui, mi ha insegnato tutto, e dopo tanti anni i ruoli si sono invertiti, tant’è che ultimamente diceva che ero io il suo mentore.
La sua fiducia in me era totale, tanto che per ogni cosa, che ci fosse da dire o da fare, diceva sempre a tutti di parlare con me.

Ricordo che è stato molto gentile quando l’ho cercato, era un mese prima che entrasse in ospedale. E poi mi dici che avevate sempre gli stessi obiettivi quando parlavate, ma perché questo? Cosa c’era di molto simile fra voi due?

Secondo me è perché eravamo due persone sempre all’avanguardia, cercavamo sempre la novità, cercavamo sempre di emergere nelle cose. Siamo sempre stati due combattenti, fin dall’inizio della nostra collaborazione quando acquistammo lo stampo del SINTESI 45, progetto di Ettore Santarelli. Lo stesso Santarelli gli ha detto in dialetto che era matto…. perché con l’esperienza dell’ULDB50 di Bill Lee, poi l’avrebbe portata in mare… «Questa è una barca da lago», ma Nini gli rispose «non ti preoccupare»…
La barca era una bomba, pensa che navigava e planava sulle onde a velocità di 18/22 nodi, e Nini l’aveva chiamata FLYING SHAMAL (SHAMAL era il nome della sua prima scuola). Successivamente Nini portò lo scafo da Rinaldi e fece modificare la coperta facendo una tuga per essere più vivibile: ed io l’ho sempre seguito in tutto. E qui finisce la storia di questa barca che comunque continuò a navigare (e dietro a questa c’è una storia incredibile descritta nell’ultimo libro di Nini dal titolo LA BARCA TORNO’ SOLA).
Quando c’era qualcosa che gli veniva in mente ci mettevamo a tavolino, facciamo questo, facciamo quello, e tiravamo giù il negativo e il positivo, mettevamo sulla bilancia tutte le alternative. Abbiamo sempre avuto una grande collaborazione, eravamo sempre d’accordo su tutto quello che facevamo, non lo so…  sarà per il carattere…

Avevate anche la stessa visione nel modo di porvi nei confronti del mare, delle persone, della società

Sì, esatto, eravamo proprio uguali, identici. Forse io ero un po’ più aggressiva di lui perché ero più giovane, lui aveva più esperienza, era più pacato. Ti racconto di quando ho iniziato a lavorare con la capitaneria, dove io mettevo a disposizione la nostra barca per la prova pratica della patente. Ricordo la prima volta, quando ho detto subito ai candidati:”… Io sono qua perché vi devo esaminare, vi daranno una patente per condurre l’imbarcazione da diporto; quindi, dovete dimostrarmi di saper governare e di gestire l’equipaggio. Dovete sempre pensare che andate in barca con gente che non sa niente, quindi dovete dare ordini precisi, se avete in mente come va gestita la situazione”.
Penso di essere andata molto bene! La commissione mi ha osservata per tutto il tempo e alla fine si è complimentata per la professionalità dimostrata, sottolineando la serietà del mio approccio all’esame.

Ma è un discorso di educazione e di formazione, cioè quando tu hai un imprimatur di un certo tipo… Il fatto che io abbia iniziato, dopo il nautico, a navigare e cominciare a fare contratti di 11 mesi, di traversate, di 16-18 giorni, hai un’educazione e un approccio alla vita di barca e di mare che poi ti accompagna per tutta la vita: è un discorso di responsabilità soprattutto.
Abbiamo parlato di Nini che formava i velisti: ha formato Soldini, poi ha formato anche te, ma il suo segreto qual era?

Secondo me il suo segreto era la capacità di trasmettere l’argomento, la disciplina e l’amore per il mare in una maniera molto semplice, molto convincente.
Ti faceva proprio amare il mare. Era una persona tranquilla, lui non era aggressivo, ti spiegava le cose, poi era severo nel momento in cui c’era da intervenire quando c’era una situazione d’emergenza.
Ne abbiamo passate tante, abbiamo avuto tanti problemi in barca. Abbiamo spaccato un frenello del timone, abbiamo avuto una collisione a Saint-Tropez, durante una regata che si chiamava all’epoca la Nioulargue, ora si chiama “Le voiles de Saint-Tropez”. Però ha sempre mantenuto la calma, siamo rientrati in porto, abbiamo fatto la riparazione e siamo ripartiti per la regata.
Senza parlare, solo con la sua presenza, era in grado di rassicurare sempre l’equipaggio.
Un’altra storia a Calvì, c’era una burrasca da nord-est, siamo arrivati con motore in avaria, avevamo preso un groppone di reti nell’elica, stavamo per spiaggiarci.
Abbiamo avuto la fortuna di trovare subito nella baia di Calvì una boa e ci siamo agguantati…  non l’ho mai visto preso dal panico o da insicurezze. Io dicevo a lui, «Nini se non ci fossi stato tu io non mi sarei sentita così tranquilla» e lui mi diceva «se non ci fossi stata tu io non avrei fatto quello che ho fatto». 

Ti ho fatto questa domanda ricordando l’approccio che aveva Tabarly nel formare le persone: sai che conosco Luciano Làdavas, sono già andato 4 volte a trovarlo in Valsesia, ed è venuto a Verona a fare una serata dove ha raccontato che Tabarly non insegnava mai niente; diceva che l’unico modo per gli allievi di imparare era che si trovassero sul punto di “azione” e intervenire prima che arrivasse lui.

È un’altra tecnica allora! Invece Nini insegnava; pensa che è stato lui l’ideatore di fare i corsi per le patenti nautiche, quando ha smesso di navigare sulle navi. Poi ha scritto dei libri, e tutto quello che ha raccontato sono storie che ha realmente vissuto, non sono inventate, ad esempio il mistero del Cargo perduto “Socotra”: è un libro che racconta un’esperienza vissuta, ho anche le foto di quella nave in originale che ha salvato.
Ma si sente che sono argomenti che lui ha vissuto in prima persona.
Sì, assolutamente, te lo garantisco, conosco le storie che lui mi raccontava prima di scrivere i libri, esperienze che poi ha riportato, come la trilogia Jacaranda, Dragonera e Sangue nella corrente…

Nell’ultimo titolo lui navigava in Oriente, mentre c’erano le guerre, e vedeva i cadaveri navigare sul fiume: tutte immagini che ha visto con i suoi occhi, trasformati in romanzi. Mi diceva: “non voglio fare delle autobiografie, voglio fare dei romanzi dove la gente si appassioni al racconto durante la lettura”. Con una certa enfasi raccontava gli episodi, e leggere i suoi libri era come sentirglieli raccontare, perché erano tutte storie vissute da lui.

Beh, mi sembra che abbiamo rotto le “acque” per l’intervista, e Nini Sanna ci ha dato una mano anche questa volta. Ma chi è oggi Ida Schiavi? Giornalista? Fotografa? Velista? Navigatrice? Imprenditrice?

Oggi mi definirei più che altro velista navigatrice.

La tua giovinezza… raccontami come l’hai vissuta

La mia giovinezza l’ho vissuta direi molto bene a Torino. Ho iniziato a lavorare molto presto, intorno ai 16 anni facevo la fotografa, e a vent’anni avevo già il tesserino da fotoreporter col quale entravo in qualsiasi posto dove si svolgevano delle manifestazioni sportive, culturali, di tutto insomma.
Fotografavo e vendevo le mie foto, le stampavo a casa di notte, quelle in bianco e nero, trasformando il bagno in una camera oscura dove la mia famiglia non poteva entrare fino a quando non avevo finito il lavoro, mentre le diapositive le portavo a sviluppare in un laboratorio esterno,
Ho lavorato per un laboratorio di maschere e costumi teatrali col quale andavamo a fare le sfilate delle maschere e dei costumi ed io fotografavo documentando la manifestazione.
Realizzavo dei dépliant e manifesti. Ricordo che un anno feci un manifesto con una bellissima maschera ambientata sotto la Mole Antonelliana e con questo manifesto tappezzarono Torino per 15 giorni. Seguirono ingaggi per copertine e servizi interni per una rivista, è stato un bel periodo.

Ho letto che sei cresciuta in un contesto familiare dedito al sociale: cosa ricordi?

Sì, sono cresciuta in una famiglia dove soprattutto mio papà faceva attività politica, era iscritto al PCI, ed era molto attivo per tutelare i diritti di tutti noi.
Io lo seguivo ogni tanto, ma mi piaceva di più lavorare, però anche in questo caso andavo a fotografare le manifestazioni che faceva papà; ad esempio, nel 1982 feci un servizio fotografico al Festival Nazionale dell’Unità, dove venne Berlinguer, e c’erano tutti i paesi del mondo: ancora adesso lo pubblicano, e addirittura hanno fatto un libro dove c’è una mia intervista.
Papà era stato Partigiano e quindi aveva tante cose da raccontare, comunque i genitori mi hanno insegnato valori che non ho mai scordato: rispetto per il prossimo, onestà e tanto altro.

Avresti pensato allora, che da Torino saresti approdata a Sanremo, al mare?

Non pensavo di arrivare da Torino, approdare al mare e fare quello che sto facendo ora. Da ragazza avrei voluto diventare una grande fotografa e andare in giro per il mondo a scattare fotografie; mi sarebbe piaciuto lavorare per delle riviste scientifiche o cose del genere.

Eri talentuosa come fotoreporter, saper cogliere l’attimo o essere al posto giusto nel momento giusto?

Sì, posso dire che ero talentuosa, ero sempre al posto giusto nel momento giusto e tutti mi cercavano per fare servizi fotografici. L’unica cosa che non facevo erano i matrimoni i battesimi, le cresime eccetera.

Passione per la tecnica fotografica, all’inquadratura o sensibilità alla luce e allo scatto?

Certo c’era passione per la tecnica fotografica, tant’è vero che andai anche a fare un corso a Milano alla Ciba per imparare a stampare dalle diapositive a colori su carta.
Le mie foto venivano sempre bene non buttavo quasi niente, tant’è vero che da quel famoso manifesto fatto sotto la Mole Antonelliana, dove andai con la modella vestita e mascherata, feci solo dei provini e dal provino stesso fecero il manifesto.
Sì, perché una volta si facevano i provini, si stampavano e si guardavano scegliendo le migliori, cosa che adesso col digitale non si fa più.

Chi ti ha introdotto al “mare”? curiosità o una persona?

È stata un’attività estiva che il Comune di Torino, pagava per metà quota ai giovani che erano compresi tra i 16 e i 25 anni. Ricordo che era intorno a maggio/giugno. Aprii il giornale di Torino,” La Stampa” e vidi un articolo che parlava della possibilità di fare questa vacanza per i giovani. Si chiamava ESTATE RAGAZZI, dove proponevano varie cose, campeggio bicicletta, subacquea ed anche la barca a vela con due possibilità:

  • in foresteria stanziale a Noli dove durante il giorno si utilizzavano le derive
  • vela d’altura per un periodo di 10 giorni con le barche che erano, combinazione, di Nini Sanna, ed io scelsi questa. E lì la mia vita cambiò.

Quando sei andata per la prima volta in barca a vela?

Ho scoperto di avere l’acqua salata nelle vene proprio in questa vacanza fatta con Nini Sanna, quando mi mise al timone perché voleva mangiarsi un panino.
Il resto dell’equipaggio era a pagliolo, perché tutti i 10 ragazzi soffrivano il mare: io ero l’unica che stava bene e quindi…. presi il timone.
Ricordo che c’era un bel vento intorno ai 20/25 nodi da Levante, stavamo navigando di bolina e lui mi disse:
«tieni il timone mentre mangio il panino, sei già stata in barca?»
e io gli dissi: «no è la prima volta»
«va bene mi rispose, tanto qua ci sono io che ti correggo»
Andai al timone e ricordo che portavo perfettamente la barca, camminava benissimo ed andavo dritta senza correzioni, e lui mi domandò nuovamente:
«ma tu ci sei già stata in barca non è vero che non ci sei stata»
ed io gli ripetei: «no ti ho detto che non ci sono mai stata»
«non è possibile mi stai prendendo per i fondelli»
Comunque in quell’occasione mi sono divertita tantissimo, mi piaceva, e non ho mai sofferto il mal di mare; anche quando mi chiedeva di fare una manovra, nonostante la mia mancanza di conoscenza di termini marinareschi, facevo le manovre correttamente, come se le avessi sempre fatte, ed anch’io ne ero meravigliata!

È stato difficile decidere per il… mare?

Non è stato assolutamente difficile decidere di andare per mare, comunque, i primi 2-3 anni continuavo a fare la fotografa mentre andavo in barca come marinaio/mozzo.
Facevo le foto alle altre barche durante le regate e poi le esponevo nei club e le vendevo.
La vera decisione di dedicarmi solo al mare è stata nel 1985, quando mi sono trasferita a Sanremo, in quegli anni vivevamo in barca.
Ci siamo messi in società, ho avuto la mia prima barca di proprietà. Così lasciai la fotografia ho continuato a fare le foto, ma non più per lavoro: la passione per il mare era decisamente più forte.

Dalla patente nautica al trasferimento al mare: a Sanremo? E lasciare Torino è stato difficile?

No, l’amore per il mare e per la vela erano più grandi di quello per la mia città.
La patente nautica, comunque, la presi nel 1985 a Savona, e presi solo quella a vela; successivamente quella a motore a Sanremo.

È stato con Nini Sanna che ti sei introdotta nell’ambiente delle regate?

Lui oltre a portarmi in barca per la scuola e le crociere, mi portava a fare le regate. All’epoca ne facevamo tantissime anche durante l’inverno: novembre, dicembre, gennaio; l’attrezzatura tecnica non era come oggi, le cerate erano facevano acqua, in mare si sentiva molto il freddo, però ero giovane e non lo pativo, le barche non avevano riscaldamento, era tutto molto più spartano di oggi.

Raccontami le tue prime esperienze come skipper, cosa ti piaceva di più? Il rapporto con gli equipaggi, gestire la barca?

Trasmettevo agli equipaggi la capacità di andare in mare e vedevo che ci riuscivo molto bene; dovevo essere brava…  perché mi chiamavano sempre.
Le mie prime esperienze da skipper?
Nini mi ha “buttato” subito a fare l’istruttore per la Lega Navale di Torino, per loro faceva le patenti nautiche.
Uscivo in mare sempre con barche diverse, di privati, la Lega Navale era molto soddisfatta, poi ho continuato a fare l’istruttore.
Ecco, le mie prime esperienze le ho fatte così, andavo a insegnare a fare le manovre e i miei allievi erano più bravi di tutti gli altri. Quelli che facevano l’esame e che avevano fatto scuola con me, ricevevano i complimenti e di conseguenza era come se li facessero a me.
C’era anche quello “ciuccio”, ma ci sta…
Il corso pratico prevedeva 7/ 8 uscite in mare, mentre adesso ne fanno 2, 3, 4, ed infatti chi si iscrive non impara niente!
A me piaceva, era una passione…  uscivo con qualsiasi tipo di vento e non sbagliavo mai una manovra, nè a vela nè a motore, senza elica di prua, e non ho mai fatto un danno: un dono?

Sì, sì, è vero. Sai una cosa, parlavi prima di uscite in mare; una volta alla scuola Vela dovevi iscriverti in ottobre, novembre, perchè in estate gli istruttori erano a fare charter, e tutti i fini di settimana c’era l’uscita in mare; quindi chi frequentava era “obbligato” a fare l’uscita in barca, vivere in barca; si usciva sabato, si dormiva a bordo sabato sera, e si andava fuori anche d’inverno, per poi avere la capacità di sostenere l’esame con padronanza. E tu fai ancora scuola vela?

Sì, certo. Faccio ancora la scuola Vela, sì, ne faccio un po’ meno ma quando lo faccio, lo faccio sempre con la stessa passione che mettevo 40 anni fa.

Visto che parli proprio che non sono più i tempi di una volta, non preferiresti uscire per andare verso l’orizzonte senza dover tornare in banchina ogni volta? Partire e andare? non riesci a farlo?

Mi piacerebbe, ma non posso lasciare la società, siamo rimasti in due e devo seguire le varie attività, ed è diventato tutto più complicato.

Non ci sono persone che hanno voglia di prendere in mano la società?

È una storia che si è ripetuta tante volte, e ogni volta lascia un sapore un po’ agrodolce. Ho investito così tanto in numerose persone, non solo tempo, ma anche tutta la mia passione. Le vedi crescere, imparare, e il tuo obiettivo è proprio quello: dar loro le ali per volare da sole.
La parte difficile, e ironica, è che quando finalmente spiccano il volo, ti lasciano qui, a dover ricominciare. E poi la vita accade: c’è chi ha messo su famiglia, chi ha inseguito un sogno diverso, chi semplicemente ha trovato la sua strada altrove.
Alla fine, ti ritrovi un po’ a corto di forze, ma credo faccia parte del ciclo: si dà tanto, e poi si impara a fare a meno. È semplicemente così.

Tu sei approdata subito alle regate; sapevi già di essere competitiva? Inoltre, le tue vittorie, a che cosa erano dovute? Alla gestione del mezzo, degli uomini, tattica? O usavi il “SANNAR” che mi ha colpito moltissimo quando ho letto nel racconto di Nini del “SANNAR” al posto del radar…

Ahah, era ancora prima che ci conoscessimo, arrivando a Marsala alla Regata dei Mille, quando a bordo non avevano nessuno strumento se non la bussola.
Chiesero ad un allievo a bordo”Che strumento avete?” – “Abbiamo un SANNAR …”, è stato simpatico.
Sicuramente la scelta del mezzo, ma la tattica e la perseveranza sono fondamentali per ottenere risultati in regata.
Nel 1987, siamo stati i primi in assoluto a mettere in calendario i corsi regata. Nel primo avevamo quattro allievi, da lì è partito tutto il lavoro, abbiamo avuto tantissima gente che veniva a fare i corsi di regata.
Partecipavamo alle regate con l’equipaggio di allievi, ma li preparavamo prima, non li prendevamo a casaccio. Venivano, li obbligavamo a fare del pre-regata, quindi uscivamo in mare per gli allenamenti; all’epoca non si usava ancora il gennaker, con lo spinnaker che è più complicato.
Abbiamo avuto tantissime barche, e abbiamo anche cambiato tante barche. Gli X-119, il prototipo di Besozzi, il Jod 35, poi nel ’90 sono stata la prima a fare l’equipaggio femminile con le barche d’altura, prima velista in Italia.
Ho fatto anche un giro d’Italia, quello di Cino Ricci, con l’equipaggio femminile.
Ancora adesso, quando vado in giro, trovo solo gente che mi conosce, che si ricorda di me, perché ne abbiamo preparati tanti.

La regata è competizione con gli altri o stimolo per le persone?

Entrambe le cose.

Secondo me l’idea di far partecipare i ragazzi alle regate è stata assolutamente interessante e importante, anche perché la competizione diventa un mezzo per confrontarsi, per imparare dove si sbaglia e dove ci si correggere.

Certo, la regata diventa una palestra di vita eccezionale. Da un lato, ci si confronta con sé stessi, con la barca e a superare i propri limiti. Dall’altro, si scopre che il modo migliore per farlo è insieme agli altri, imparando a fidarsi, a comunicare e a lavorare per un obiettivo comune, diventando parte di qualcosa di più grande.

Il tuo primo contatto con l’Atlantico, cosa ti ricordi?

Il primo contatto con l’Atlantico fu nel 1987, quando io e Nini siamo andati alle Isole Vergini Americane a St. Thomas, perché eravamo stati ingaggiati per un lavoro, a prendere un ULDB50.
All’epoca niente pilota automatico, strallo cavo a prua, quindi cambio di vele, nessun salpa-ancore, nessun desalinizzatore.
I proprietari avevano fatto la regata Transat des Alizès poi si erano fatti i Caraibi, e l’avevano lasciata a St. Thomas, dove all’inizio di dicembre siamo andati a prenderla. L’abbiamo portata a Martinica, a Natale, per fare un charter di Capodanno, ci siamo fatti la traversata da St. Thomas a Martinica, in tre giorni e tre notti, io e lui da soli. Facevamo tutto noi due, con questa barca che comunque era veramente una bomba… Siamo stati lì a navigare, due mesi all’ancora a godercela, e poi l’abbiamo preparata per metterla sulla nave e rimandarla in Italia, mentre noi siamo tornati in aereo.

Ah, non l’avete portata voi?

No, i proprietari non volevano che facesse l’Atlantico al ritorno, avevano paura che andasse in pezzi; adesso ci sono le navi, le barche a vela le prendono a bordo intere, ma a quei tempi l’abbiamo disalberata e preparata per imbarcarla in coperta…  Ho fatto talmente tante cose che adesso parlando mi è venuta in mente anche questa esperienza, perché me l’ero già dimenticata.
Siamo stati invitati da Vittorio Malingri, quando era Cuba, a Caio Largo. Non so se la sai questa storia, c’è anche un libro, un libro che si intitola Moana. C’è una foto presa dall’alto e sotto ci siamo io e Nini.


Il libro Moana io ce l’avevo, credo che non sia più in circolazione, me l’aveva prestato Angelo Preden, con la copertina blu: ho fatto le fotocopie di tutte le pagine, e ho fatto cinque libricini. Moana e Glenan sono due manuali che hanno fatto la storia della vela, comunque non ricordo di aver riconosciuto Nini Sanna sulla fotografia

Ma Nini è sempre riconoscibile, negli anni è stato sempre uguale.
Siamo stati invitati a Cuba, a Caio Largo, dove aveva la base Vittorio Malingri, siamo stati lì almeno 20 giorni, navigando con loro; poi siamo andati a Varadero, dove io e Nini avremmo dovuto andare a lavorare, era un posto più turistico. Non era così semplice impostare l’attività, e alla fine non siamo rimasti.

Le regate transoceaniche, quale ti ricordi? Chiaramente da quel che mi hai detto è stato Nini che ti ha introdotto in quell’ambiente, ma quale è quella che ricordi con più piacere?

Ho fatte due regate transoceaniche, nel ’92 quella delle Colombiadi per il Cinquecentenario di Colombo, dove Nini è partito da Genova e ha fatto tutto il percorso, sempre con gli allievi e un aiuto che si portava.
La prima tappa era Genova-Cadice, poi Cadice-Las Palmas; a Las Palmas sono sbarcati alcuni, e mi sono imbarcata io insieme a un altro nostro istruttore. Come ti raccontavo era stato il primo dei quattro che aveva fatto il corso di regate, e assieme abbiamo fatto Las Palmas – Puerto Rico.
Per me questa regata è stata una cosa meravigliosa, tenevamo lo spinnaker giorno e notte planate a venti nodi, eravamo tre timonieri. È stata faticosa, ma sai, io ero giovane, non ricordo la fatica ma le grandi emozioni, le grandi planate, e siamo arrivati tredicesimi su 280 barche.
Al rientro da Portorico sono partita per una regata da Sanremo a Barcellona, in due tappe: Sanremo/Marsiglia/Barcellona. In quell’occasione potevo contare su due persone cruciali. Gianfranco e Alberto, divenuto poi mio marito. Siamo arrivati secondi su 50 barche.
Ti racconto un aneddoto divertente… Negli anni ottanta il premio della regata ARCOBALENO.
Percorso Andora/Sori/Andora il premio per la prima classificata skipper donna era il suo peso in prosciutto. All’arrivo mi pesarono e mi consegnarono ben 56 kg di prosciutto… ovviamente fu molto divertente.
Posso raccontarti la seconda attraversata che ho fatto l’Oceano: è stata nel 1995, quando poi è successa la disgrazia del Parsifal.
Era organizzata da noi, con i francesi, partenza da Sanremo con tappa a Casablanca. Nini ha fatto Sanremo-Casablanca, dove è sbarcato e sono imbarcata io e sono atterrata a Guadalupe.

Quindi era la stessa regata del Parsifal? L’ho raccontata qualche tempo fa su Rotte di tutto il mondo.

Sì, era la stessa regata. Nini aveva via radio gli equipaggi consigliandoli di non partire o di stare sotto costa fino a Porquerolles.
Alcuni non hanno ascoltato questo consiglio e sono andati…  La terribile disgrazia al Parsifal è nota a tutti.
E pensare che in realtà la tappa Sanremo-Casablanca era una regata di trasferimento, non faceva parte della classifica.
Ricordo che c’era anche Vincenzo Onorato, con il Rejavi Aybela, lo Swan 58, che subì gravi danni, ma la struttura dello scafo tenne.
Sono passati tanti anni, non mi ricordo più o mi fa male ricordare.

È stato proprio un errore, una supervalutazione di sé stessi e della barca. In mare non si può fare così.

No, bisogna sempre essere cauti.

Da skipper a istruttrice, a organizzatrice di regate internazionali, sempre in competizione con te stessa e con gli altri. Ti ci riconosci?

Sì, sì, competitiva sempre, ancora adesso.

Non hai mai pensato di partire per un giro del mondo? Eppure avevi Nini come riferimento.

Sì, allora l’avrei fatto con lui, e ancora adesso lo farei, e comunque non da sola, perché a me non piace navigare in solitario. Mi piacerebbe partire con mio marito e magari fare qualche tappa con gli amici più vicini.

Ma come mai non l’hai fatto?

Perché comunque ho sempre lavorato. Io non avevo tempo di partire, non sono una navigatrice sognatrice. Ho sempre navigato per lavoro, ma con la passione di chi lo fa per divertimento, capisci? Non si poteva abbandonare il lavoro, e c’è stato un momento che avevamo 14 barche, ed erano sempre in mare.

14 barche?

Sì, 14, nei weekend abbiamo avuto anche un centinaio di allievi in banchina, quello era il lavoro, lavoravamo tantissimo: chi poteva partire per un giro del mondo e lasciare tutto? Io sono una persona molto responsabile.

I tuoi incarichi nel mondo della vela, e istruttrice federale di vela d’altura: quale molla ti spinge? L’amore per la vela, per il mare per la competizione o per insegnare?

Tutto: per la competizione, per il mare, per insegnare. Io sono una persona molto competitiva. Mi piace vedere che i miei allievi si distinguono dagli altri.

Quando fai gli esami hai la possibilità di testare questi ragazzi. Come sono? Lo fanno per regatare? Per navigare? Per moda?

No, per regatare quasi più nessuno. Secondo me un po’ per moda e un po’ perché magari hanno voglia di andare in mare, ma non c’è più quello spirito di una volta. Ho visto l’involuzione, se posso dirlo, adesso quando qualcuno telefona per andare in crociera, diciamo l’80%, la prima domanda che fa è se ha una cabina personale col bagno…

Quindi parlando dei velisti di ieri e di oggi, non esistono più i sogni per loro? Nessuno parla di giro del mondo?

Secondo me qualcuno sì, sicuramente, ma sono pochi, una bassa percentuale. Se ne parli magari dicono, sì sarebbe bello, ma non poi c’è nessuno che lo fa… Poi ci sono persone che fanno la patente, vanno a fare l’esame senza mai visto una barca in vita loro.
Ad esempio quando venivano da me in ufficio a chiedere di fare la patente, la prima cosa che dicevo era:
“… se non hai esperienza è meglio che prima tu faccia un corso, così cominci a vedere se ti piace, capisci che cosa vuol dire andare in barca e quando hai iniziato a imparare la base dell’andar per mare, poi fai la patente. Così puoi accrescere la tua cultura marinaresca e magari puoi affittare la barca, comprarti la barca, ma all’inizio…”

A questo riguardo, parlando sempre di chi parla scrive, quanti giornalisti e quante persone parlano di navigazione e di barche senza aver mai fatto un viaggio in barca.

Esatto, esatto.

Mi colpisce un’altra cosa: parliamo tanto di mancanza di lavoro e invece il mare offrirebbe tantissime opportunità con le barche, i cantieri, le marine. Ci sono ragazzi, fra quelli che conosci tu, visto che vivi sul mare e vieni da questo ambiente, che hanno voglia di intraprendere un lavoro sul mare? Non necessariamente fare lo skipper, ma anche lavorare in mare, in barca.

Sì, quando mi è capitato che mi chiedessero aiuto o consigli per un imbarco ho fornito loro contatti ed agganci.

Le caratteristiche di uno skipper?

Devono essere la capacità di gestire il mezzo, qualsiasi esso sia, non sempre lo stesso, deve salire a bordo, capire con che barca sta per intraprendere il mare, guardare com’è l’equipaggio, gli ospiti e quindi in base a questo, prendere decisioni di navigazione. Poi deve gestire tutte le situazioni, far partecipare gli ospiti alle manovre e farli divertire.
Dobbiamo sempre tener presente che lo skipper parte per una crociera con gente che non conosce…

Mi riferisco a una volta, allo skipper che aveva la barca propria, parliamo anni ’70, ’80, forse anche ’90; faceva le crociere e faceva due stagioni, uno ai Caraibi e uno in Italia. Chiaramente qualcuno gli procurava gli ospiti, o l’agenzia o la moglie, come per Angelo Preden. Lo skipper era sempre in mare, stava a bordo per una stagione intera, e deve avere non solo capacità e esperienza, ma soprattutto duttilità, sacrificio, perché fare lo skipper è un sacrificio, è non è mica così facile! Basti pensare che per una donna che faccia lo skipper o che si cimenti a fare questa attività è molto impegnativo, è faticoso

Sì, è un lavoro impegnativo, perché passi 24 ore al giorno con le persone, non hai mai un momento di “privacy”.

E ogni 8 giorni cambia l’equipaggio!

Sì, l’equipaggio cambia ogni settimana. Capitava di tornare dalla Corsica dopo aver affrontato 30 nodi; con l’equipaggio sconvolto e stremato dal mal di mare. Arrivavamo con la barca, e mentre io mi mettevo a pulire, l’equipaggio successivo era già in attesa con le valigie pronte. Poi ripartivamo subito. Nonostante tutto, mi divertivo molto, mi piaceva!

Sì, però sei sempre sul pezzo! quando ancora avevo la barca, io partivo a maggio e tornavo a ottobre, ma non facevo lo skipper. Andavo in Egeo, ma ti giuro che non sono mai riuscito a leggere un libro, perché sei sempre sulla barca, con la barca, con le persone; facevo da mangiare io, la spesa la facevo io, di conseguenza è un impegno non indifferente, e da giovane lo fai, ma quando cominciano a passare gli anni non è più così. Penso ad uno skipper che si trova persone che non si adattano volentieri e non sono all’altezza di stare con gli altri. Almeno io avevo solo amici,

Infatti, questa è la parte più complessa: gestire le persone. lo skipper deve essere capace di orientare la scelta della navigazione, delle baie, dei porti, in base alle pretese…  deve essere anche un po’ psicologo.

Questo volevo proprio sentirti dire. Ho una curiosità, perché sono affezionato a certe abitudini di una volta: tu che sei sempre sul mare con l’attività, ci sono ragazzi giovani di 12, 14, 15, 16 anni che girano in banchina, che chiedono qualche imbarco, che sono curiosi, che chiedono notizie sulle barche? Che si offrono di aiutarti? …  c’è ancora la curiosità?

Sì, ma sono pochi. Secondo me ci sono dei luoghi adatti per questo. Se vai a Las Palmas, o a Gibilterra, non dico a Panama, prima di una traversata trovi dei giovani che cercano l’imbarco, molto meno di anni fa.

La tua filosofia di vita qual’è?

È una domanda un po’ complessa questa qua, ma dammi qualche input.

Se vuoi ti dico la mia filosofia: la vita è un contenitore del quale non conosco le dimensioni, che va riempito di esperienze, la mia vita è questa.
E poi c’è un’altra cosa molto importante: una mia amica una volta mi ha chiesto <<… qual è il limite dell’uomo?>>… è il limite dell’uomo, quindi siamo noi il nostro limite. Quindi se tu unisci le due cose, presumibilmente tu non hai più paura di niente. Quindi puoi solo aggiungerci la curiosità!

Non sono una brava oratrice, ma mi riconosco in tutto quello che hai detto. Sono una persona che non ha veramente paura di niente. Te lo posso dire proprio così, spudoratamente. Io non ho paura, mi rendo conto che qualsiasi cosa mi capiti, ho sempre la calma assoluta. Perché mi preparo per quello che devo affrontare.

Scusami, ma da come ti esprimi, mi chiedo, come mai tu non hai fatto qualcosa per superare il tuo limite? Sembra quasi che tu abbia accettato il limite orizzontale invece che verticale, perché tu ti impegni in tantissime cose, ci riesci, però non hai fatto un’impresa nella quale tu ti ci sia buttata, non per dimostrare qualcosa agli altri, ma per te, per superare un tuo limite. Per esempio mollare tutto e partire.

Ecco, questo sì ti posso rispondere. Non ho mai cercato questo, sai perché? Perché la mia vita è stata un susseguirsi di esperienze al limite. Sono sempre arrivata al limite nel fare le cose, ed ho vissuto una vita piena di esperienze.
Ho fatto regate come skipper donna, con equipaggi di uomini, facevo delle cose che, mi rendevo conto, un uomo non avrebbe fatto.

Ti racconto una storiella che dice tutto su di me e sui miei limiti, o meglio, sulla voglia di trovarli.

Immagina la scena: Bordighera, anni ’90, a bordo del mio X119. C’è una regata, il Trofeo Saluzzo, 50 barche sulla linea di partenza. E non era un anno qualunque, no: era proprio quando la petroliera Haven era affondata davanti a Genova, lasciando il mare nero come la pece. Un’atmosfera da film.
Partenza a mezzogiorno, una costiera di 50 miglia fino ad Antibes e ritorno. Giriamo la boa di disimpegno e via, subito a issare lo spinnaker!
Il problema? Che il vento ha iniziato ad aumentare. Sale, sale, sale… 15, 20, 25, 30 nodi… A un certo punto vedo le facce del mio equipaggio: occhi sbarrati, pupille dilatate che mi urlavano in silenzio: “Ma sei matta?”. Stringiamo verso una boa davanti a Monaco, sempre con 30 nodi fissi, e io, nel momento di massima tensione, cosa dico?
“Forza ragazzi, si stramba!”
Silenzio a bordo. Poi una vocina: “Strambare? CON QUESTO VENTO?”
E io: “Ma certo, perché no? L’abbiamo sempre fatto!”
Ti dirò, al timone non ho mai sbagliato una manovra in vita mia. Il problema è che non sei solo in barca. Al mio “via!”, succede il patatrac. Un comando non viene eseguito, il braccio che non lavorava rimane bloccato sul winch e… boom! La barca parte per la tangente, una straorza da manuale, sdraiata sull’acqua.
Grido l’ordine giusto: “Mollate il braccio sotto vento!”. Ma nel panico totale, i ragazzi mollano la cima sbagliata. Risultato? Il tangone va a sbattere dritto contro lo strallo e si piega a 90 gradi. Un’opera d’arte moderna. Addio tangone.
Immagina il finimondo a bordo: urla, lo spinnaker che sbatte come un demone, 30 nodi di vento in faccia e il tangone piegato come un grissino. Con calma olimpica, faccio recuperare la vela e tiro su quel che resta del tangone. L’equipaggio mi guarda, pallido come un lenzuolo.
“E adesso? Ci ritiriamo?”
Li ho guardati. Io? Ritirarmi? Ma stiamo scherzando?
“State zitti, fate quello che dico io e andiamo avanti!”
Morale della favola? Abbiamo continuato la regata senza più poter usare lo spinnaker e siamo arrivati secondi su 50 barche. Se non fosse successo quel macello, avremmo vinto a mani basse.
Ecco, per me “mettersi alla prova” è sempre stato questo. Non avere paura, buttarsi, a volte anche sbagliare apposta durante gli allenamenti per imparare a risolvere i problemi. Ho sempre goduto così, nelle situazioni difficili. Di tempeste come quella ne ho superate a centinaia, e alla fine ho capito che non ho più bisogno di dimostrare niente a nessuno, soprattutto a me stessa. La capacità di andare avanti ce l’hai o non ce l’hai. E io, a quanto pare, ce l’ho.

Quindi ti senti realizzata a questo punto? come donna, come velista, come navigatrice

Sì, sono realizzata, come navigatrice, come velista, come persona anche, ho dato il massimo di me stessa.

 Una riflessione psicologica: noi granelli di sabbia nel deserto, corriamo, corriamo sempre, siamo in preda al vento che ci spinge di qua e di là, con tutti gli impegni che abbiamo nella vita, non ti viene mai voglia di fermarti?

Sì, certo mi viene voglia di fermarmi, lo sto già facendo perché adesso sto conducendo una vita molto più tranquilla! diciamo che adesso prendo la vita ogni giorno come viene, mi sono messa anche a andare in bicicletta, in barca ci vado sempre, mi piace, ma sono più tranquilla, non sento di dovermi realizzare, io mi sento realizzata.

Quindi non hai rimpianti?

Nessuno.

E che cosa è stata per te la Veladoc?

È stato il mio crescere, è stata l’azienda che mi ha portato sulla cresta dell’onda.

Hai mai avuto paura in mare?

Se ho mai avuto paura, quella vera, in mare? Sì, una volta. Una volta sola, ma in un modo che non dimenticherò mai.
Stavamo facendo un trasferimento da Sanremo a Riva di Traiano per la “Roma per tutti”. Eravamo l’equipaggio di sempre: io, Nini e il mio socio Federico. Con noi c’era anche una ragazza, un’appassionata che ci aveva chiesto di imbarcarla per un trasferimento… Povera stella, dopo quella volta non ha più messo piede su una barca in vita sua. E tra poco capirai perché.
Era aprile, e da una settimana il maestrale soffiava come un dannato, senza tregua. Sai come è in quel periodo, è il suo mese. Le previsioni per Capo Corso erano da bollettino di guerra: forza 8, 10, a tratti 12. Con un mare montato da sette giorni di vento, ti lascio solo immaginare.
Noi dovevamo scendere a Sud per la regata, ma eravamo bloccati in porto. A un certo punto Nini, con la sua solita calma serafica, sentenzia: “Ragazzi, il tempo stringe. Dobbiamo partire. Quello che prendiamo, prendiamo.” E così siamo partiti.
Credimi, una cosa del genere non l’ho mai più vista. Più scendevamo, più il vento e il mare si trasformavano in un incubo. Navigavamo solo con la trinchetta, un fazzoletto di vela, nient’altro. Eravamo tutti legati, ovviamente.
Il momento clou è arrivato in pieno mare aperto. Nini aveva appena lasciato il timone al mio socio. Io ero in pozzetto con l’altra ragazza, assicurata alla barca, quando a un certo punto, davanti a me, ho visto alzarsi un’onda gigantesca che arrivava ben oltre la prima crocetta.
In quel secondo di lucidità glaciale, mentre la barca iniziava a salire su quella parete, ho fatto una cosa che non avrei mai pensato di fare. Mi sono messa a testa in giù nel pozzetto e mi sono sganciata dalla cintura di sicurezza. Il mio pensiero è stato uno, freddo e istantaneo: “Se la barca si rovescia, legata sono morta. Mi trascina giù e non ho scampo. Libera, con il giubbotto, forse qualcuno mi vedrà, forse ho una possibilità.” Ecco, lì ho provato il terrore puro. La sensazione di essere a un passo dalla fine.
E invece, la barca ha fatto il miracolo. Invece di ribaltarsi, è partita in una planata pazzesca, quasi surfando quella mostruosità, ed è scesa dall’altra parte.
Poco dopo, quasi arrivati a Capo Corso, abbiamo incrociato una nave che stava tentando di salire verso Nord. L’abbiamo vista fermarsi, fare una lentissima inversione a U e tornare indietro. Nemmeno lei riusciva a risalire quel mare.
Lì ho capito che la paura che avevo provato non era un’esagerazione. Era la cosa più logica del mondo.

Ma fammi capire una cosa, se è arrivato il maestrale, come fai a vedere l’onda di prua alta? o ti aveva appena superato, quindi l’onda era già davanti a te, ti aveva già superato quindi andavi in planata giù.

Esatto, non capivo la paura da cosa derivava perché un conto è affrontare un’onda di quelle dimensioni di prua, e un conto è di poppa, la poppa ti passa sotto ma sai cosa vuol dire? Andavamo talmente forte che avevamo paura di infilarci dentro poi, dopo che ci aveva superato.

Io ricordo questa esperienza sempre con Angelo Preden, quando con l’Aliseo portoghese usciti da Gibilterra, guardandoti dietro avevi queste onde che erano alte 3 metri e ti prendevano, ti alzavano e poi giù in picchiata, e se non tieni il timone ti traversi completamente.

Quella sarà stata un’onda di almeno 7-8 metri. Con un fetch lungo, che arriva dal Golfo del Leone dopo tanti giorni di maestrale, e quando arrivi a capocorso… 

Senti, c’è un navigatore che hai avuto come esempio oltre a Nini?  Che ti ha ispirato quantomeno? O che hai letto che ti piaceva? Slocum? Chichester.

Sì, senza dubbio Peter Blake. Per me ha sempre rappresentato il navigatore completo: un vincente incredibile nelle regate più dure del mondo, dalla Whitbread alla Coppa America, ma anche un uomo con una visione più grande, che ha poi dedicato la sua vita alla difesa degli oceani. Incarnava sia la grinta della competizione che una profonda consapevolezza.

 Ieri e oggi velisti, regatanti, navigatori. si può ancora parlare di amore per la navigazione o è solo competizione?

È un bel paradosso. Da un lato, sento che la competizione pura sta quasi superando l’amore per il mare. Dall’altro, darei qualsiasi cosa per una di queste barche ipertecnologiche. Vedo le immagini della Giraglia, di quel magnifico palcoscenico, e l’attrazione che provo è più forte di ogni riflessione. La verità è che, semplicemente, adoro queste barche.

 Non sei l’unica perché un tuo simile, Luciano Làdavas, lui ha 82 anni, e partirebbe di nuovo a provare una barca tecnologica.

Sì esatto, anch’io. Però le barche “d’epoca” sono un’altra cosa. L’anno scorso ho fatto dalle Maldive al canale di Suez, su una barca supertecnologica RM13.70 in equipaggio con un amico.
È stato bellissimo, l’esperienza del Mar Rosso, in mezzo alle navi da guerra è stato abbastanza complesso. Anche lì sono capitata in un momento storico particolare.
Non mi manca niente, sono contenta di tutto quello che faccio.

Sei capitata nel periodo in cui c’erano i pirati e le bombe.

Sì, c’è stato un momento critico vicino a Socotra, quando siamo stati abbordati da un barchino sospetto. L’equipaggio, i miei tre compagni, mi ha immediatamente messa al sicuro chiudendomi in cabina.
La mia reazione? Zero paura. Ho solo pensato con estrema lucidità: ‘Bene, se mi devono ammazzare, che lo facciano’. L’ho vissuta con filosofia, accettando l’ipotesi peggiore senza lasciarmi prendere dal panico. Per fortuna è andato tutto bene, ma ricordo perfettamente quella sensazione di calma totale di fronte al pericolo.

 A me è capitato a Malacca, quando ho fatto l’Indiano, i pirati ci hanno affiancato, sono rimasti dietro a noi per mezz’oretta e poi in accelerata sono venuti sottobordo
Hanno visto che io ero con Super Maramu, solo con due vecchiotti, ma avevamo il canale 16 a tutto volume perché a Singapore ci avevano detto di tenere sempre aperto il canale 16 e avevamo avvisato che c’erano questi intrusi.
Loro sentivano il canale 16 che gracchiava e gli abbiamo dato una stecca di sigarette, due bottiglie di birra e sono andati via.

Noi invece hanno chiesto da bere ma probabilmente saranno stati dei pirati e anche loro, hanno visto che c’erano altre persone che trasferivano una barca normale.

Quindi, tornando a noi, tu mi dici che se adesso ti dessero una barca super tecnologica, dove non occorre che stai al timone ma te ne stai sempre dentro, andresti a farti un giro?

Ma sì perché non l’ho mai provato. Ma io potrei anche telefonare a Malingri, potrei chiamare Soldini, sono amica con loro. Però forse è un po’ un mio limite, perché mi piace anche godermi il mare, stare al timone e far camminare la barca. Mi piace perché sono capace di far camminare la barca, mi dà soddisfazione. Anche in crociera con mio marito o con gli amici mi piace regolare le vele e spingere la barca sempre al massimo.

 I tuoi progetti per il futuro?

Mi piacerebbe un giorno smettere di lavorare, e andare in un posto dove porto la barca che mi ha lasciato Nini. Stare lì e portare la gente fuori a fare vacanze, fare uscite giornaliere. E poi fare delle navigazioni, magari d’inverno, e con degli amici, con Alberto. Iniziare a fare dei giri in Mediterraneo, un po’ per volta: mi manca ancora qualcosa di questo mare.

Mi stai dicendo che è un po’ un sogno nel cassetto più che un progetto?

Definiamolo pure progetto, però ci deve essere il momento giusto per fare questo. Adesso non è ancora il momento giusto.

Per finire, mi racconti un episodio della tua vita che ti ha legato a Nini?

A me piaceva andare con lui perché vedevo che mi portava a fare delle cose sempre al limite. Questo mi ha subito legato a lui, quello che poi ha continuato a legarmi a lui.
Forse c’è una cosa divertente anche che ti posso raccontare.
A fine anni 90, inizio degli anni 2000, c’era un certo numero di Jod 35 in zona Sanremo, Andorra, Loano, Mentone etc.
In quell’anno, facendo il campionato invernale di Sanremo, organizzato dal Yacht Club, io sono andata da Nini e gli ho detto,
…<<senti, visto che abbiamo 5 di queste barche se riesci a farle invitare a fare il campionato invernale, così possiamo fare le regate in monotipo.
Su queste 5 barche, quella che portavo io, arrivavo sempre prima, e quindi ero sempre prima in classifica.
Come puoi immaginare, dopo un po’ la cosa ha iniziato a dare fastidio a qualcuno. Un giorno, uno dei miei avversari, convinto che ci fosse un trucco, se ne esce con una teoria geniale:
“Secondo me, il tuo strallo di prua è più lungo!”
E si presenta lì, serissimo, metro alla mano, per misurare lo strallo di un monotipo! Ovviamente, era identico al millimetro al suo.
Non contento, e sconfitto sul primo fronte, passa al piano B: l’attrezzatura. Mi guarda e fa:
“Ah, ho capito… è la randa! Tu ne hai una in Kevlar, noi in Dacron. È per quello che vai più forte.”
L’ho guardato e, con la massima calma, gli ho risposto: “Io la randa in Dacron non ce l’ho, se ne hai una da prestarmi la uso nelle prossime regate, così vediamo se è davvero quello il problema.”
Morale della favola?
Mi ha prestato la sua vela in Dacron… e ho continuato ad arrivare prima. Sempre.
A quel punto, finalmente, ha capito che forse, e dico forse, il problema non era né nello strallo, né nella randa.

Quindi non era certo il mezzo, ma era il manico.

Era il manico.

Abbiamo iniziato con Nini Sanna, e vorrei concludere con lui, sei d’accordo? Se c’è una persona che può parlare di Nini sei tu, che cosa potresti dirmi di lui che rimanga impresso negli annali del mare?

Parlando di Nini, è impossibile non sentire subito la passione e l’umanità e Il Rispetto, lo definirei l’anima saggia del mare.
Se si vuole comprendere Nini, bisogna partire dal suo rispetto: una parola che per lui aveva il peso di una promessa. Non era semplice deferenza, ma un profondo senso di cura.

  • Per il Mare: Nini aveva un rapporto quasi filiale con il mare. Non lo vedeva come una forza da sottomettere, ma come un’entità potente, quasi sacra, da cui imparare ogni giorno. La sua meticolosa preparazione, la sua navigazione prudente – anche nei momenti più audaci – non erano frutto di timore, ma di un’umile saggezza. Sapeva che per navigare a lungo, bisognava prima amare profondamente.
  • Per il Prossimo: La sua vera grandezza, però, stava nel trattare ogni persona con una gentilezza e un riconoscimento sinceri. In un equipaggio, Nini era il cuore pulsante. Riconosceva il valore in ognuno, capendo che la fiducia reciproca è l’unica vera ancora in una tempesta. Sapeva come tirare fuori il coraggio, come calmare l’ansia e come far sentire chiunque a bordo parte di qualcosa di vitale e significativo.

Il suo spirito era acceso da una passione per la competizione che non era mai distruttiva, ma sempre ispiratrice.
Quando era al timone, vedevi l’energia pura. La regata per lui era una danza strategica con la natura e con gli avversari. Non cercava l’umiliazione dell’altro, ma la perfezione della manovra. Era un maestro che spingeva l’equipaggio e la barca al limite, infondendo la convinzione che si potesse sempre migliorare, un nodo alla volta.
La competizione lo accompagnava anche a terra, ci divertivamo a sfidarci in cucina nei piatti preferiti. Ricordo che una sera organizzammo una cena con amici e vi fu una vera e propria sfida per cucinare i gamberoni al rum, stessa ricetta ma due padelle e preparazioni diverse…  fu molto divertente perché gli amici davano vincente talvolta una o l’altro, fu una bellissima serata…  non ricordo più se vi fu un vincitore tra noi due.
Nini non è solo un nome negli annali; è l’eco di una risata in coperta, ci ricorda che la vera vittoria non sta solo nel tagliare il traguardo, ma nell’aver navigato la vita con integrità, passione e un rispetto infinito per chi è al nostro fianco.