lunedì, Ottobre 7, 2024

DAFNE, la mia prima barca, racconto di Nunzio Platania, detto il VATE – parte2

CAPITOLO SECONDO


dove si osa pensare che la barca è comunque un mezzo di trasporto come tutti gli altri


   
Tornai in Sicilia tutto gasato. Ormai ero armatore di una seppur indomata barca e nulla poteva impedirmi di portarla sul patrio suolo siciliano.
Per quasi un mese, me ne stavo spesso appollaiato sul molo del porto a cercare di capire come diavolo facevano le rare barche a vela che allora si vedevano dalle mie parti ,ad andare e venire dove il timoniere voleva.
Non si può dire che fu una scuola ortodossa, ma siccome di meglio non si poteva fare, con il conforto del mio preziosissimo manualetto, decisi di essere ormai pronto al grande balzo.
Per cui con un valigione pieno delle stesse cose che mi portavo appresso in campeggio (fornellino, pentolini, torcia,accetta ) imbarco su treno moglie a dir poco perplessa e figlioletto quattrenne con corredo di pupazzetti di gomma.
Sul treno passai una notte intera a studiarmi la cartina geografica appesa nel corridoio, fantasticando sulle possibili tappe e cercando di memorizzare tutte le curve della penisola.
Però appena arrivati comprai la mia prima carta nautica. Ma, forse per premonizione, forse per caso, scegliendo quella che mi parve la più carina, quella del Delta padano scala 1/250.000, inconsciamente anticipai che altro non mi serviva.

La barca era li dove l’avevo lasciata.
La moglie, alla quale forse durante le mie precedenti descrizioni avevo omesso qualche dettaglio circa le sue misure, mi guardò in quel modo che ormai avevo imparato a riconoscere tutte le volte che parlavo della barca agli altri: era tra lo sbigottito e l’incredulo, come quando ti mancano le parole per esprimere il disaccordo.
Insomma mi chiede gelidamente : “Sei sicuro che ci entriamo la dentro assieme al valigione?”
– Eccome! E poi d’estate possiamo stare nel pozzetto. – furono le mie scarne argomentazioni.
Altri problemi l’intera comitiva non ne vedeva!

Per cui, scatolette, minestrine liofilizzate, tannica di miscela e …partenza.
Devo dire che la prima settimana di navigazione fu epica.
Il vento veniva dalla direzione in cui facevamo tappa e andava nella direzione della successiva. La barca sembrava collaborare, Giuseppe non rompeva tanto e la moglie cominciava a prenderci gusto.
Tutto filava a meraviglia, a parte quella volta che dovendo comprare la miscela occorreva prendere una corriera e spostarsi un paio di chilometri; al ritorno chiedo all’autista di farmi scendere nella località in cui credevo di essere attraccato ,cosa che costui coscienziosamente fece, sennonché mi trovai in un porticciolo sconosciuto e siccome della barca-moglie-figlio neanche l’ombra, non sapevo che pesci prendere.
L’autista della corriera non riusciva a capire come si fa a non sapere da dove sei partito Non aveva mai navigato, si vede, in quel dedalo di villaggetti che punteggiano la costa a nord di Chioggia.
Comunque esplorando un intero pomeriggio l’intero bacino fluviale del Po, alla fine trovai
i miei beni, che senza scomporsi più di tanto avevano aspettato otto ore.

Arriviamo al giorno fatidico: siamo nei dintorni di Punta della Maestra (il cocuzzolo del delta del Po); la giornata era stata un poco afosa, zero vento e tanto motore.
Il pomeriggio dal largo cominciano a formarsi dei nuvoloni neri, bassi e brontolanti
Decido quindi di infilarmi in uno dei tanti bracci del fiume per ripararmi e raggiungere un
villaggio che era indicato nella mia favolosa carta nautica.
Ma mentre risalgo faticosamente la corrente, il Ducati Cucciolo, che fino allora si era rivelato un mulo ubbidiente, di botto mi pianta.
Affannoso trafficare di chiavi e candele, mentre la barca si infila nella corrente e scambiando il fianco con la prua, se ne torna allegramente indietro verso il mare aperto.
(Si fa per dire perche da quelle parti il mare aperto non c’è : ci sono a debita distanza dalla costa, alta  sull’orizzonte quanto può esserlo un ciuffo di erba, isolotti, tronchi e secche a perdita d’occhio: insomma,un posto infernale se sta per giungere un groppo estivo).
L’ancorotto di cinque chili con 20 metri appena di cima, dopo aver saltellato per un centinaio di metri, aveva finalmente fatto presa su qualche groviglio di alghe sul fondo.
Il motore non ne voleva sapere, e il mio bicipite a forza di tirare l’avvio a strappo, era ormai un cilindro pieno di acido lattico. Frattanto il groppo estivo di avvicinava e i lampi che illuminavano il suo nero pece, promettevano guai seri.
Stava calando la sera, il mare già da un pezzo cominciava a schiaffeggiare la barca che nel frattempo continuava a spostarsi verso il largo, seguendo l’ancorotto che continuava a saltellare sul fondo.
Cominciai a avvertire che la situazione era drammatica.
Allora mi attacco al mio ricetrasmettitore CB che provvidenzialmente avevo portato più
per vanità di radioamatore che per una vera fede nel suo possibile utilizzo.
Brek, brek ……. dopo un poco di tentativi mi risponde una vocina :”Qui Gringhellino, come me escuci, paso”.
Chi non lo sapesse sappia che Gringhellino nel gergo CB significa ragazzino e infatti di un bambino sotto i dieci anni si trattava, in vena di emulazioni di radioamatore, visto che papà non c’era e il birichino poteva giocherellare con l’apparato.
Ora ditemi voi come si fa a spiegare ad un marmocchio che vuole giocare che tu ti trovi in un luogo imprecisato del delta padano, con un temporale furibondo che sta scassando una barca in cui c’è un altro bambino spaventato,una donna terrorizzata e il sottoscritto a cui
tremavano le gambe.
Inoltre si trovava a Chioggia che noi avevamo passato due giorni prima ed era solo in casa.
Prima ci sono volute tutte le mie capacità di convincimento per fargli capire che non era uno scherzo (i CB sono famosi per farne),poi lo convinsi a cercare sulle pagine gialle alla voci nautica, marina, porto, finchè stentatamente leggendo individua un Marina Yachting
Officina riparazioni motori Mercury. Gli faccio comporre il numero, il bambino spiega la
situazione mentre, col tasto di trasmissione che tiene premuto, ascolto impotente una conversazione in cui un bambino cerca di convincere un adulto ad uscire in mare di notte con quel tempaccio, per andare a salvare in un punto imprecisato del delta padano un signore che si è perso e che…
Non so a quale santo lo devo, ma di li a poco una voce più potente si immette sul canale e mi comunica che sta partendo con un motoscafo per soccorrermi.
Naturalmente la mia posizione è molto approssimativa. “Sono partito stamane alle 7 da… e alla media di quattro nodi, costeggiando i canali, alle 16 stavo imboccando un canale che mi sembra portasse a..”.
Insomma il massimo per uno che deve trovarti di notte in quell’inferno di dedali e canali tutti uguali.
Passano le ore, ogni tanto il tale mi chiama “Qui dove credevo che foste dalle indicazioni date, non c’è nessuno, proviamo più avanti”.
Il mare adesso è veramente cattivo.
Col buio non riesco a capire se stiamo ancora arando.
Ho un brutto presentimento..
Mi richiama per dirmi le stesse cose, colgo dal suo tono che stanno cedendo, sono due a bordo e devono trovarsi anche loro in una brutta situazione.
“Avete dei razzi?” – mi chiede improvvisamente.
Accidenti, non ci avevo pensato : ho una pistola Very con sette razzi, ci sparavo per festeggiare Capodanno. Dev’essere nel valigione.
Lancio il primo razzo. Bellissimo. “L’avete visto?”
“Macché!”
Secondo razzo: Niente. “Ma dove vi siete cacciati?” E’ un poco irritato “Ci spostiamo verso terra”
Quarto…quinto… Giuseppe adesso piange decisamente spaventato. La moglie è bianca come un lenzuolo. La mia fede vacilla rovinosamente.
Sesto, il nodo alla gola ormai è stazionario.
Settimo e ultimo. “Eccolo! Ma siete proprio a terra!” Sento l’urlo sollevato del mio corrispondente. E’ fatta -mi dico.
Illusione! Il peggio doveva ancora venire.

E quando arrivò aveva l’aspetto di un mostro di 10 metri. Rombava sull’acqua e dalle sue
bocche posteriori emetteva ruggiti da coprire il frastuono del mare. Era di legno, con una enorme prua affusolata e minacciosa. Al centro campeggiava un enorme faro con cui ci avevano puntato già da un pezzo. L’uomo alla ruota era piccolo, con gli occhiali, aspetto nervoso, non udì mai la sua voce: era il cervello. L’altro, un gigante con un vocione cavernoso, si sporgeva, mentre il motoscafo avanzava e urlava qualcosa.
Il motore con gli scappamenti a pelo d’acqua vomitava boati a 100 decibel che mi impedivano di capire.
Si avvicinarono ancora più pericolosamente: da fermo quell’enorme bazooka faceva
paura. Rollava in modo pazzesco e il tale alla ruota doveva accelerare a bruschi tratti per controllarne l’assetto e ogni volta la sua traiettoria puntava micidialmente contro il mio scafo.
Quando capì cosa intendevano fare, agghiacciai.
Volevano tentare un trasbordo e abbandonare la mia barca per tornare in seguito a riprenderla.
“Giammai – mi urlo dentro- Piuttosto resto qui tutta la notte”.
Quello al comando capì che testa dura ero e disse qualcosa all’uomo megafono che riferì.
Ci avrebbero rimorchiato fino a Chioggia
Dopo una serie di infruttuosi tentativi, riuscì ad afferrare una cima che poteva trainare
una petroliera, così grossa e dura che non poteva mai essere fissata alle mie striminzitissime bitte. Arrangiai alla meglio con una mia cima e quando fui pronto, cominciai a salpare l’ancorotto.
Non ce la facevo ad avanzare, a causa delle onde che mi respingevano.
“Taglia”- mi ingiunge il gigante.
Così feci e comincio la tregenda.
Con un violento strattone il mostro raddrizzò la mia prua verso il mare aperto e fin dai primi istanti apparve chiaro quello che sarebbe successo dopo.
La bestia non poteva procedere, anche al minimo , a meno di 5-6 nodi, allora strattonava,
poi metteva a folle, il mare la traversava, appena arrivava un’onda rollava da far paura,
allora il timoniere dava un colpo di motore e virava di 90 gradi per prendere il mare di prua. La conseguenza era che lo strattone arrivava con un angolo di tiro che avrebbe messo a dura prova bitte ben più solide delle mie.
Urlai quando la prima si divelse con uno schianto e finì in mare. Dopo minuti eterni compresero, rallentarono, si accostarono, la loro prua minacciosa oscillava come una mannaia a tre, quattro metri dalla mia infelice barchetta.
Insistevano nel folle proposito di farmi abbandonare la barca. Passai democraticamente
l’opzione al mio equipaggio: niente da fare si resta a bordo.
Il gigante urlando in un sempre più marcato dialetto veneto, mi fa capire che mi devo legare all’albero.
Lo feci. Non l’avessi mai fatto.
All’inizio pareva resistere bene.
I tali ormai all’esasperazione, visto che funzionava, accelerarono.
Io aggrappato al timone lo sottoponevo ad uno sforzo micidiale per stare sulla loro scia.
Durò così qualche ora, in quella baraonda di mare ogni metro di avanzamento mi sembrava un miracolo…e un incubo.
L’albero soffriva. Ad ogni strattone vibrava tutto, e quando entrava in contro fase con l’onda, sembrava pronto a volare via.
Ad un tratto quando il mare aveva raggiunto la sua massima cattiveria, la mazzata finale.
L’agugliotto inferiore cedette. La pala assunse una posizione obliqua e restò così incastrata, deformando l’altro agugliotto e obbligando la barca ad un pericoloso sbandamento e ad una andatura a zigzag veramente pazzesca.
Urlavo, urlavo, ma i tipi avevano solo voglia di arrivare e avevano abbandonato la vigilanza iniziale.
Poi finalmente si accorsero del disastro.
L’albero adesso, non più in tensione, pendeva pietosamente da un lato.
Stavolta erano fermi e duri: “O trasbordate o vi lasciamo qui!”
Stavo per cedere. Poi una voce imperiosa mi suggerì di bluffare.
“Potete andare” dissi con una calma estranea al tumulto interiore.
Forse fu a causa del mancato guadagno che i due si ripromettevano di ricavare, fatto sta
che conciliarono con un :”Bisogna attaccarsi di poppa”.
Le bitte di poppa erano della stessa taglia delle scomparse sorelle di prua, per esclusione quindi il solo punto che sembrava disponibile al successivo massacro era la staffa del motore.
Per l’esattezza legai la cima al motore stesso e ricominciò l’incubo.
La barca aveva poco più si 50 cm di bordo libero a poppa e lo specchio era piatto e squadrato.
Il resto bisogna soltanto immaginarlo.
Al primo strattone entro praticamente sott’acqua, opponendo una resistenza inaudita all’avanzamento. Procedeva con un enorme baffo davanti e di dietro una buffa prua in alto, dove stavano alloggiati i miei cari praticamente prigionieri dentro.
Io inerme, impotente nel pozzetto semi sommerso col cuore straziato alla vista di quello scempio.
Ma avanzava… Non mi ricordo a cosa pensavo durante le successive ore, ho solo la
vivissima sensazione che lo scorrere del tempo era come sigillato nell’attimo presente,
ogni metro era quel metro, ogni secondo non si congiungeva ne col precedente ne col successivo: si dilatava in se stesso e poi svaniva nel nulla!

…………………………….2continua………………………………………………………