Guardando il mare
Ho letto questo bel racconto di Francesco: parla di mare, di navigatori, di regate… ve lo raccomando…
Guardando il mare da pensionato, affacciato ad una finestra sul blu, montano i ricordi. Ed uno di questi ricordi mi riporta a tantissimi anni fa, ai tempi delle Ostar, cucciolo del mitico Paolo Sciarretta, termolese, con il suo 45’ costruito a Chioggia, che all’epoca era considerata una nave e si apprestava ad attraversare l’Atlantico proprio in una di queste regate. Erano i primi anni della vela oceanica moderna, c’era Ida Castiglioni, Franco e Doi Malingri, c’era Tabarli, e c’erano tanti altri uomini qualunque, ed erano li con noi a scambiare parole e consigli, a bere caffé imbevibile e discutere di mare con una umiltà assordante. In uno di questi appuntamenti, Franco raccontava di una burrasca forza 9 in Tirreno presa con il suo Moana 28 da cui prese spunto per migliorie strutturali. Ero poco più che un bimbetto ma ero una spugna, assorbivo tutto!
Tutto era differente, i trasferimenti erano via mare, lo shore team era composto da 4 gatti che impiastricciavano resine di dubbia provenienza, il meteo era istinto, esperienza, oppure era servito attraverso ponti radio per lo più grazie a radioamatori dall’Italia. Il carbonio era un perfetto sconosciuto ma cominciava ad affacciarsi insieme al titanio. Le barche stesse erano assolutamente di serie! C’era l’impala 35, c’erano i Moana, c’erano architetti come Scattolin. Non mancava qualche opera strampalata frutto di autocostruzione.
Un mondo completamente differente dall’attuale, le prime cerate tecniche che comparivano erano appannaggio di pochi, così come i gps. Molti di noi avevano il sestante in borsa insieme alle mutande; niente vestiti griffati, niente social con i suoi eroi da banchina. Niente riscaldamento, niente acqua calda; anzi, quale che fosse la latitudine, nelle horse latitude come al largo di Sant’Elena, 5 lt di acqua era la razione giornaliera per fare tutto, dalla toilette al bere. Un anno, nel corso di una botta di Pampero, un serbatoio si ruppe e rimanemmo senz’acqua per più giorni. Desalinizzammo l’acqua alla vecchia maniera e per fortuna ci salvammo 😅😅.
Ció che affiora oggi è un ricordo del 1991, per l’esattezza, quando ero ormai di casa a Plymouth nell’ambito delle regate oceaniche, ed ero lì, finalmente, per lavoro, non al seguito di qualcuno.
Durante un trasferimento il comandante, un gigante trent’enne rosso come il fuoco, becca un brutto virus intestinale che dopo averlo sbatacchiato in cuccetta (2 tubi e un telo) dalle Azzorre a Madeira legato come un salame e affogato in un misto di vomito e diarrea, lo fa sbarcare con immediato ricovero in ospedale. Era un cencio bianco e noi eravamo preoccupati di subire la stessa sorte.
Dovevamo però raggiungere la Guadalupe a passo di super galoppo e la notizia arrivò via telex tanto improvvisa quanto assurda.
Ero nominato relief captain. A me la bagnarola!!
Dei 5 che componevano l’equipaggio rimasto ero il più giovane, inesperto e, se vogliamo incapace, rispetto ai miei compagni tutti molto più forti e capaci di me. Il più scemo aveva una 40ina di traversate oceaniche, io al massimo 4 o 5.
Fu così che ci apprestammo a partire in un clima, però, ostile. Quella del relief captain era una posizione molto ambita, essendo il banco di prova del prossimo comandante di una prossima, ipotetica avventura.
Mollati gli ormeggi, uno dei tre turni era sempre doppio, essendo in numero dispari. Decisi, infatti, che avrei fatto i turni con gli altri e questo, invece di imbonirli, finì per farli imbronciare ulteriormente avendomi sempre tra i piedi. Chiedevo consigli e mi rispondevano “you are the master”. Chiedevo il loro pensiero e mi dicevano “it’s my business”. E tra loro era pure peggio, mancando quel senso di rispetto dovuto al Comandante.
Entrammo al trotto nelle calme equatoriali (allora il tratto erano 8-9 kn per un 70’ 😬) e li ci piantammo per più giorni. L’umore calava come l’acqua dolce, la cui razione scese da 5 a 3 lt al giorno. Nessuna nube all’orizzonte ed i teli per la racconta dell’acqua giacevano nel gavone pieni di muffa.
Puzzavamo tutti come capre, pur lavandoci con l’acqua di mare che sotto il sole, peró, marciva insieme al sudore.
Ed alla fine ci scappó l’azzuffatina. Per un caffé, troppo lungo per qualcuno, troppo corto per qualcun altro. Un clima davvero misero, mentre il mitico Pierluigi (Zini) nei suoi appuntamenti giornalieri non dava nessuna buona notizia.
Fu così che tirai fuori l’italico genio. Presi il pane secco che veniva conservato per prassi di bordo, lo misi a bagno nell’acqua di mare, lo triturai e lo lasciai ad asciugare sotto il sole; poi lo ripresi, lo lavorai ancora, lo stesi a forma di pizza e ci misi su olio (vomito ancora al pensiero di quella sostanza oleosa chiamata olio) pomodori pelati di mamma (che piangeva disperata ad ogni sciagurata telefonata che riuscivo a rubare alle HF) che costituivano la mia scorta personale, e acqua di mare.
Ne feci 3.
Cotta in padella con un pagliolo come coperchio.
Fu un successone, la divorarono e l’umore salì. La notte, insieme all’umore, complice una fiaschetta di rhum di Madeira comparsa in coperta, salì anche il vento. La Guadalupe prese ad avvicinarsi ma, il resto è un’altra storia.
Oggi come allora, peró, pane e pizza nel mio forno non mancano mai!! 😁😁