venerdì, Marzo 29, 2024

ARTURO storie di ordinaria follia

Ciaociao amici di RTM. Ricevo dal Comandante Tony Coppi le foto originali del Bora dell’Italcantieri, e del suo Arturo; quest’ultimo deve essere stato un suo grandissimo amore….non saprei però se il primo o l’ultimo…

Ve le ripropongo perchè anche questa puntata è vissuta a bordo di Arturo, e agli gli amanti del mare e delle belle barche farà piacere vedere le foto che distribuisco su questo articolo.

3 – Arturo, storie di ordinaria follia    
di  Toni Coppi

Il Fabinou continua la sua splendida cavalcata, il mare tranquillo, l’equipaggio rilassato. Mentre passiamo al largo di Gerbekse Giovanni mi dice:

“E poi”

 “non ti sei ancora scocciato?” rispondo io “guarda che la storia dell’Arturo è quella di otto anni di amore difficile….ci vorrà tempo a raccontarla”

Mario interviene:

“semmai proseguirai stasera in pozzetto, dopo cena!”

“ok, non mettiamo il carro davanti ai buoi!”  

Dopo questa prima veleggiata Fiumicino Anzio, io cominciai a uscire tutti i fine settimana, con amici e colleghi di compagnie aeree. Uscivo di casa il venerdì mattina alle sette con panini e acqua minerale, che lasciavo in auto, andavo a lavorare e la sera alle 17,30, appena uscito dal palazzo Alitalia all’EUR mi recavo in Darsena e accendevo il motore (un Mercedes da 36 cavalli, marinizzato Nanni). Poi arrivava un amico, a volte raramente due, armati di sacco a pelo e spesso di una bottiglia. Tutta l’inverno e la primavera incominciammo ad uscire prima con il tempo buono e poi, via via che pigliavo confidenza con la barca, con mare anche decisamente  formato.

Le nostre mete normali erano a Nord Cala Galera, Giglio, Porto S.Stefano, fino a Portoferraio, o Marciana Marina in Elba; a Sud Nettuno, Anzio, Circeo, Ponza. Il Venerdì notte si viaggiava, spesso solo randa e motore, sabato si passava una giornata a zonzo (e magari a rimorchiare!). Di solito capitava che la giornata di vela più bella si facesse la domenica, rientrando a Fiumicino. Il lunedì mattina, un poco insonnoliti si rientrava al lavoro aspettando con ansia il venerdì successivo.

Malgrado quel pessimo inizio Paride non soffriva il mal di mare, ma di inverno preferiva non muoversi, quindi a bordo lo vedevo poco. Venne l’estate e decidemmo di fare le ferie insieme. Ci imbarcammo: Paride con la moglie, un suo amico (anche lui impiegato di una compagnia aerea) con la fidanzata ed io da solo.

Fu una bella crociera, anche se personalmente soffrivo “la solitudine”(!) vedendo le due ragazze spesso molto discinte, che mi passavano davanti; e sottocoperta gli spazi erano angusti. Lo facevano apposta, i mariti mugugnavano, ma io ce la mettevo tutta per evitare inconvenienti.

I due amici facevano comunella tra loro e fra tutti formavano un equipaggio molto indisciplinato. Ricordo che una delle ragazze un pomeriggio lasciò le scarpe ai piedi della scaletta della tuga. Scendendo di corsa per prendere un maniglione  non le vidi e inciampai, sbattendo contro il maestro che passava al centro della tuga. Mi feci molto male, ma evitai di mostrarlo per orgoglio…..

Un giorno vedendo avvicinarsi un groppo, chiesi di darmi una mano a ridurre le vele. Si rifiutarono, dicendomi che continuavo a rompere. Io scesi in cabina e li lasciai fare. Il vento  aumentò rapidamente intorno ai 25 nodi e si alzò un poco di maretta, crestine bianche e cielo grigio piombo. Eravamo davanti a Pianosa. Dopo una decina di minuti scese una delle ragazze a chiedermi di salire in coperta. Le dissi che lo avrei fatto volentieri se chi mi aveva dato del rompicog…ni me lo veniva a chiedere personalmente.  Pochi minuti dopo si presentò l’amico di Paride. Io gli dissi: vengo, ma solo se fate quello che vi dico. Nelle ore seguenti non avevo mai visto un equipaggio più pronto ad eseguire le manovre!

Arrivammo in porto che mare e vento erano notevolmente aumentati.  L’equipaggio si riunì sul ponte: ”per il comandante: hippe hippe” seguito da una pernacchiona corale!

Scoppiammo tutti in una risata e l’armonia fu presto ristabilita. Un buon cacciucco di pesce con la necessaria bottiglia di rosso (con il cacciucco il bianco è una bestemmia) ci aiutò a rimetterci  dalle fatiche di .quella giornata. Finì la crociera e ci lasciammo in apparente armonia.

Così poco dopo venne il giorno che trovai degli sconosciuti a bordo dell’Arturo: Paride aveva venduto la sua quota senza avvertirmi! Non era ancora passato un anno dall’acquisto.

Nell’anno che seguì vissi il momento più nero della mia storia con l’Arturo. Il mio nuovo “socio imposto” era un anziano ex sommergibilista – così diceva, si chiamava Antonio come me – con una moglie ”pied noir”, (cioè nata a Misurata nella nostra ex colonia Libica) e ben sette figli: sei femmine in scala e l’ultimo un maschietto di dieci anni.

Era uno che diceva di saper fare tutto.

Ci accordammo per dividerci i periodo di uso, un mese a testa. Io gli spiegai che prendere le ferie in Alitalia significava dare una data precisa per l’inizio e la fine dei miei venti giorni. Così stabilimmo che io sarei entrato in ferie inglobando il ponte di ferragosto, visto che lui non aveva impegni lavorativi. Lui avrebbe dovuto riconsegnare la barca a Fiumicino pulita e pronta per navigare giorno 1 di agosto.

Io presi le ferie a partire dal 5 agosto e mi organizzai con gli amici Massimo B.  e Giorgio P. che a loro volta fissarono le ferie. Il primo di agosto alle cinque di sera uscii dal palazzo Alitalia all’Eur e raggiunsi Fiumicino: l’Arturo non c’era! I cellulari non esistevano, per cui non avevo modo di raggiungere il sommergibilista. “Che succede?” pensai. Il mare era tranquillo e le previsioni ottime….

Il giorno successivo era di sabato e passai l’intera giornata in banchina, aspettando di veder arrivare la mia barca. Niente quel giorno e neppure il giorno successivo, domenica. Il lunedì mattina andai in Capitaneria di Porto e chiesi di rintracciare l’Arturo.  Il pomeriggio stesso verso sera il guardiamarina di turno mi informò che la barca era a Civitavecchia, sequestrata dalla società di rimorchiatori locale, che la aveva recuperata dalle secche di S.Agostino una settimana prima…..e che per il rilascio pretendeva il pagamento dell’intervento effettuato.

Quando chiamai a casa di Antonio A. lui era già lì da qualche giorno, ma si era ben guardato dall’avvertirmi. Mi disse che la società di rimorchiatori pretendeva troppo e che lui ”l’erba del vicini è sempre più verde”… (ancora oggi cerco di capire cosa volesse dire). Fatto sta che mi misi in contatto con l’impiegato della società e concordai un prezzo – sia pure alto – ma meno di quello che avevano richiesto al sommergibilista, che al momento del rimorchio aveva abbandonato la barca (!).  Come obbligato in solido dovetti pagare per riuscire a riavere l’Arturo, con l’ingenua speranza che sarei riuscito a recuperare da Antonio per lo meno la metà del danno che aveva causato con la sua condotta inetta ed irresponsabile. (detto per inciso un avvocatucchio a cui mi rivolsi fece causa ai rimorchiatori invece che al mio maldestro socio, persi la causa e pagai le spese: così ne uscii cornuto e mazziato!)

Quando finalmente rimisi piede sull’Arturo non riuscivo ad entrare  in tuga per l’odore nauseabondo che ne usciva. Come aveva fatto il sommergibilista a ridurre la barca in quelle condizioni?  Vittorio – Il marinaio di banchina di Fiumicino – subito interpellato scese in cabina e due minuti dopo riemerse ridendo.  L’unico wc della barca, di quelli con la pompa a leva in bronzo e il pedale, a causa dell’uso quotidiano di quella numerosa famiglia (9 persone oltre al cane!) si era subito intasato. Antonio aveva pensato bene di riparare lo scarico, scolleganDo il tubo dalla presa a mare e – non riuscendo a rimetterlo – lo aveva abbandonato in sentina (profonda una sessantina di  centimetri dal torello al pagliolo). Avevano vissuto così in barca per una quindicina di giorni…. altro che  sommergibile!!!!

Vittorio mi chiese una cifra incredibile per pulirla, pari a quasi la metà del mio stipendio mensile. Ma io stavo perdendo le mie preziose ferie e non potei discutere troppo. Non volevo certo impegnare quelle giornate mie e dei miei amici a svuotare e disinfettare la sentina. Così, alla fine, il 10 di agosto riuscii a prendere il largo.


Il buon giorno si vede dal mattino: ho passato l’anno peggiore dellla mia vita, cercando invano di riscattare il 50% da quel vecchio caparbio, che aveva trovato in me il socio ideale: quando c’era da pagare lui spariva e al telefono mi diceva: “l’erba del vicino è sempre più verde”……

Di Antonio ho una infinità di ricordi, oggi forse spassosi da raccontare, ma allora decisamente amari da vivere. Quella prima stagione, Giorgio, Massimo e io facemmo sosta al Giglio, ormeggiati in seconda andana (tutti pigliavano le ferie di agosto).

Avevo notato che sulla tuga c’era un foro rotondo – diametro di una punta di trapano da 8 – e non riuscivo a spiegarmi come e perché fosse stato fatto. Il nostro vicino di barca, anche lui in seconda andana, era un simpatico ragazzo della nostra età.

Appena vide l’Arturo mi chiese subito da chi lo avevo affittato. Gli chiesi perché. Lui conosceva bene il padrone, un personaggio con tante figlie e un cane che abbaiava sempre. Gli spiegai che era il mio socio al 50%.

“Allora scusami, ti ho fatto un danno alla barca”

“Tu? Perché?”

“Non hai notato un foro sulla tuga lato dritta?”

“Si, mi chiedevo che cosa diavolo fosse”

“L’ho fatto io!”

“Ma dai!”

“Sai quello str… lasciava il cane in coperta ad abbaiare tutta la notte. Sia io che qualche altro vicino di barca, gli chiedemmo di tenerselo in cabina. Niente da fare. Ci rispose con una frase strana, qualcosa come: il prato …adesso non ricordo.”

“Magari l’erba….”

“sì qualcosa sull’erba del vicino: io gli risposi: il cane del vicino ha rotto le p…”

La notte seguente il cane era di nuovo in coperta ad abbaiare.  Non ne potevo più.

Così sono uscito con il fucile subacqueo e gli ho sparato a dieci centimetri dal muso! Il cane ha lanciato un guaito di paura e lui è uscito. L’arpione era conficcato nel compensato laterale della tuga. Il colpo deve avere fatto un fracasso infernale, insieme ai guaiti del cane. Il vecchio è uscito ha farfugliato qualcosa e da quella sera il cane è rimasto sottocoperta!”

“Ecco che cosa è questo buco!!! Mi ci sono scervellato per giorni!”

Facemmo amicizia e la sera andammo tutti e due gli equipaggi insieme a mangiare a Giglio Castello nel ristorante “Da Maria”. La mattina seguente  se ne andò con la sua barca, un Almadira mi pare di ricordare, e non lo ho mai più rincontrato.

Appena uscito lui, in seconda andana ci si accostò un lightining con una tenda montata a prolunga della piccola coperta di prua: a bordo una ragazza e un ragazzo di una ventina di anni. Lei bella, con lunghi capelli biondi, a boccoli come la moda di allora. Li aiutammo ad ormeggiarsi al nostro bordo di dritta, avvertendoli che la mattina dopo saremmo usciti intorno alle dieci. Nessun problema, loro erano diretti a Campese e sarebbero usciti alle sette.

La sera la brezza invece di calare rinforzò leggermente, ma l’acqua era tranquilla.

La mattina dopo verso le otto fui svegliato da un forte urto contro lo scafo. Mi alzai inferocito e uscii dalla tuga in pigiama.

“Un ferito a bordo, un ferito a bordo, aiuto”

Erano i due ragazzi della deriva. Lei aveva il viso coperto di sangue e di lacrime; metà della pelle del cranio aperta con tutti i capelli attaccati che le ricadevano su una spalla: in quel momento ho vissuto tutto l’orrore degli scalpi dei comanceros. Una scena che non posso dimenticare. Lei era totalmente sotto shock, non parlava, non si lamentava, si muoveva come un automa. Io avevo nella farmacia di bordo un disinfettante liquido senza alcool che non causava bruciore o dolore. La presi per mano, la feci scendere in cabina e le versai il disinfettante sulla parte scoperta del cranio.  Non disse una parola. Poi con un poco di cotone le pulii la faccia dal sangue che continuava a riaffiorare dalla ferita. Intanto i miei amici con i vicini avevano chiamato il soccorso sul 16. Massimo e Giorgio la presero delicatamente in braccio e passando da una barca all’altra la depositarono in banchina, dove c’era già del personale medico ad attenderla.

Per un’ora continuammo a seguire la vicenda attraverso le voci di banchina (è arrivato l’elicottero, l’hanno portata all’ospedale di Grosseto…) Poi ci occupammo della deriva, abbandonata dal giovane proprietario, che aveva seguito la sua ragazza. La  assicurammo ad una pilotina di proprietà di un gentile pescatore locale, che ci assicurò che la avrebbe ben custodita. Un paio di ore dopo lasciammo il porto e ci dirigemmo verso l’Elba.

Quell’episodio ogni tanto mi riaffiora alla mente con una sensazione di orrore e di pena per quella bella ragazza, così sottoshock che non le uscì mai neppure un gemito……