venerdì, Aprile 26, 2024

Racconti dal pozzetto di Tony Coppi. Tony e il mare – BORA e ARTURO

Racconti dal  pozzetto
di Tony Coppi

Tony  e il mare – BORA e ARTURO

Il Fabinou, con il suo dinghy a traina, vola a sette nodi in bolina di buon braccio su un mare liscio, a tratti appena increspato dal vento fresco di una splendida giornata di giugno.

La intrigante costa Turca tra Marmaris e Bozukkale scorre a meno di un miglio a dritta In pozzetto l’intero equipaggio (Giovanni, Mario ed io) si gode il momento di piacevole relax.

“Tony, sono curioso, come e quando hai scoperto la vela?”

“E’ una storia lunga!”

“Chi ci corre dietro?”

”Va bene, da dove vuoi che cominci”

“Dall’inizio naturalmente”


Le mie vele

Il mio primo lavoro dopo la laurea mi fu offerto da un amico che aveva una distilleria a Tonco d’ Asti. Durante le gelide serate invernali in mezzo alla neve, con una bottiglia di Barolo davanti, parlavamo di mare. Lui era un industriale e viaggiava in Lamborghini, io un giovane laureato senza una lira.

Qualche tempo dopo mi capitò un grave incidente automobilistico che, guarda caso, avvenne davanti ad una casa cantoniera che portava a lettere cubitali il nome: CASA COPPI… Quante probabilità ci sono che ti capiti un incidente in un luogo che porta il tuo cognome? Lo presi per un avvertimento. Lasciai un ottimo stipendio e le nebbie di Asti per un molto meno retribuito lavoro alla Alitalia a Roma.

A Lino piaceva il motore, della vela non ne voleva sentir parlare. Mi adattai, pur di bagnare una carena in mare. Cercai e trovai una buona occasione. Facemmo una società di “capitale e lavoro”. Lui pagò la barca, io trovai l’ormeggio giusto in Bocca di Magra,  da un simpatico pescatore a cui versavo mensilmente – non sempre regolarmente – una cifra abbastanza compatibile con le mie finanze del momento. Naturalmente mi occupavo anche di tutti i piccoli lavori di manutenzione. Comprammo un Bora Junior dell’Italcantieri, sette metri di cabinato dotato di un entrofuoribordo da 150 cavalli, usato con meno di tre anni di vita.  Lo comprammo a Roma e lo tenemmo per i primi 15 giorni alla Siama Mas in Fiumara, il braccio del Tevere, che sbocca al faro di Ostia.

Lo dotai di una bussola militare da rilevamento, che comprai a porta Portese, un fuoribordo Seagull da 6 cavalli con gambo lungo, una manichetta da 5 litri di miscela al 10%, una pagaia e un radiogoniometro. Controllai le dotazioni di sicurezza entro le 6 miglia, e dichiarai che eravamo pronti per partire. Lino arrivò a Roma in Lamborghini, che lasciò alla Siama Mas per recuperarla al ritorno.

Siamo nel 1966, non c’erano gps e plotter;  il Loran-C  per il diporto, che leggeva i segnali della rete Consolan, in  Italia arrivò solo a metà degli anni ottanta e io lo montai con la sua lunghissima antenna sul mio Malandrino III.    Negli anni ‘60 e ‘70 gli strumenti per il piccolo diporto erano soltanto la bussola, il log, il baracchino (radiotrasmittente portatile, molto in uso sui camion). Per le imbarcazioni maggiori il famoso Sailor, la trasmittente che consentiva di collegarsi con radioamatori di tutto il mondo (sestante a parte, che imparai a usare più tardi negli anni ‘80 dal comandante Lucarini della Lega Navale di Viareggio).  Qualche diportista, che come me pensava di affrontare rotte più impegnative, si dotava del radiogoniometro, che girando l’antenna direzionale, con una certa esperienza permetteva di localizzare  i radiofari (di cui però bisognava conoscere il segnale Morse).

Carichi di entusiasmo, fiduciosi che questo supplisse alla mancanza di un minimo di esperienza di navigazione, e più di tutto alla mancanza di carte nautiche (ne avevo una generale del Tirreno e una carta stradale d’Italia: tanto era una navigazione lungo costa!) decidemmo di partire per portare il nostro Bora Junior a Bocca di Magra. Io ero patentato dal 1960, ma in mare c’ero stato solo con le derive, lui aveva superato l’esame ad Asti da qualche giorno. Il tempo stimato di navigazione a velocità di crociera era di una quindicina di ore, ma il pieno di benzina non era sufficiente per tutto il percorso. Programmai una tappa a Livorno per il rifornimento. Era  già la fine di giugno, quindi pensammo bene di partire alle sei del pomeriggio, con il sole ancora abbastanza alto.  Imbarcammo per precauzione qualche bottiglia  d’acqua, quattro panini e una confezione di biscotti Marie.  La linea della costa ci sfilava davanti a poche miglia di distanza in una serata limpidissima. Passammo Civitavecchia.

Tramonto splendido, notte stellatissima, mare appena increspato dalla brezza di terra, la lunga scia scintillante che la barca lasciava dietro di sé,  tutto era meraviglioso. Dopo circa quattro ore passammo l’Argentario lasciando il Giglio sinistra. Segnai sulla carta il passaggio e l’ora.  A mezzanotte iniziammo i turni. Prima di buttarmi in cuccetta (scomodissima!) accesi il radiogoniometro e tentai di localizzare un paio di radiofari. Inesperienza, rumori di fondo e modesta portata dell’apparecchio mi fecero rimandare a più tardi il controllo del punto nave. Diedi a Lino la rotta, in caso che non riuscisse ad individuare la costa.

La mattina all’alba eravamo in mezzo al mare, con una nebbia a tratti intensa e la lancetta del carburante pericolosamente scesa verso la riserva. Non si vedeva terra da nessuna parte. Un momento di panico. Chiesi a Lino se aveva visto durante il suo turno il faro di Piombino, ma lui mi disse che aveva visto solo delle luci e forse un faro, ma aveva dovuto seguire solo la bussola. Tentai di mettere giù un punto nave, ma miei calcoli basati solo sulla velocità di crociera, sulla rotta bussola e sul tempo di navigazione mi dicevano solo che dovevamo essere circa tra Piombino e Livorno, e certo la scala della carta nautica non mi aiutava…. Non si vedeva terra da nessuna parte. La benzina ci garantiva solo meno di un’ora di navigazione. Tentai ancora con il radiogoniometro ed in effetti ricevetti alcuni segnali, che però mi lasciarono molto dubbioso. Poi, con un sospiro di sollievo vedemmo in lontananza la sagoma di un peschereccio. Ci misi sopra la prua e in pochi minuti lo raggiungemmo. Mi accostai a portata di voce e gridai: “ per favore dov’è Livorno, la rotta per Livorno”

Dal peschereccio mi giunse una voce ironica che in veneto mi gridò: “Ostrega, non sapete che la tera xe a Est?”  “Quante miglia?” “nove dieci”

Non ricordo se fu più forte  la vergogna o il sollievo. Così, prua per 90°, una ventina di minuti dopo uscì dalla nebbia la linea rassicurante della costa e poco più avanti la sagoma scura della scogliera foranea di Livorno, suscitando la meraviglia del mio socio, che si prefigurava di dover navigare per ore in mezzo al mare con il 6 cavalli!

Questa figura di me…..fu una vera umiliazione. Quella prima volta in mezzo al mare senza vedere terra da nessuna parte mi aveva gettato nel panico totale! La mia prima esperienza di navigazione avrebbe dunque dovuto sconsigliarmi nel proseguire la strada del marinaio, ma invece la rafforzò. Così due anni dopo iniziai la mia avventura con l’Arturo.

Cercavo una barca a vela usatissima, alla altezza delle mie modeste possibilità. Le barche piccole non mi piacevano, perché immaginavo lunghe crociere e volevo cuccette praticabili per persone della mia stazza… e magari con altezza in cabina intorno ai due metri. Lino si teneva il Bora, perciò cercai un altro socio. Una conoscenza dell’ultimo anno di università, che incontrai per caso, chiacchierando mi disse che voleva una barca a vela. Poche parole e fummo subito d’accordo: massimo prezzo di acquisto, gestione e manutenzione al 50% e ferie divise in due periodi da sorteggiare.

Tutto perfetto, naturalmente. Bisognava però trovare la barca dei nostri sogni (a proposito perché così spesso la parola “sogno” e la parola “barca a vela” sono associate?…meditate gente, meditate! Potrebbe essere la voglia ancestrale di abbandonare il quotidiano per immergersi nell’ignoto? Fuga dalla realtà? Bisogno di avventura? Voglia di misurarsi con qualcosa che sappiamo essere ben più grande di noi? Poter continuare a viaggiare all’infinito spinti solo dal vento, senza bisogno di fare rifornimento? Potrei continuare per tutta la pagina, ma ogni velista, se cerca dentro di sé, troverà una risposta che gli si attaglia . Ma…. sarà poi quella vera o quella che preferiamo dare a noi stessi? Un inutile esercizio di introspezione? Per citare Manzoni:” ai  posteri (i lettori) l’ardua sentenza”)

Così una sera di marzo a Fiumicino dopo una buona cena “da Gina” facemmo una passeggiata lungo le banchine, guardando le barche e commentandole. Quelle che ci piacevano erano tutte chiaramente al di sopra delle nostre (forse solo mie) possibilità .   Verso la fine della passeggiata, una delle ultime barche davanti al capannone d’angolo tra la darsena e il canale (allora cantiere Capotondi) era un bialbero in legno, di circa quattordici metri dalla poppa al piccolo bompresso, armato a goletta. Bellissimo. C’era un cartello con il telefono del proprietario, me lo segnai quasi per scherzo: “quanto costerà? Sicuramente moltissimo, guarda che spettacolo!”   La banchina nel 1968 non era illuminata.

Il proprietario fu gentile e mi lanciò un prezzo che mi strabiliò: rientrava nel massimale stabilito. Mi disse che prima di discuterne avrei dovuto provarla, e mi indicò il nome di uno dei “marinai” della banchina. Non stavo più nella pelle, così mi misi in contatto e, essendo un giorno feriale, fissai un appuntamento per provarla dopo il lavoro. Accettammo un appuntamento alle nove di sera, quando era già buio da tre ore. A Fiumicino  Paride, sua moglie ed io con la mia fidanzata posammo per la prima volta i piedi sulla passerella di legno e poi nel pozzetto dell’Arturo. Scoprii allora che la coperta era in vetroresina, e chiesi spiegazioni al marinaio, che mi disse che la resinatura era una garanzia  di impermeabilità all’acqua….

Serata di luna piena, il marinaio sapeva quello che faceva, uscimmo a motore dalla bocca e subito lui da solo, tutto a mano perché non c’erano winches – issò la randa sul maestro e sul trinchetto un fiocco bomato e uno yankee. L’incantesimo prese la forma di un leggero grecale, che gonfiò le vecchie vele in cotone e diede l’abbrivio al bello scafo in legno, che si lasciò subito dietro una affascinante scia luminosa, riempendoci orecchie e cuore di quel leggero sciabordio che noi velisti ben conosciamo.

Come spesso capita con i colpi di fulmine quello per l’Arturo fu immediato e travolgente, ma fu anche l’inizio di una lunga e difficile storia, che era destinata ad influenzare non solo la mia passione per il mare, ma anche molte scelte della mia vita.

Incontrammo il proprietario – uno “sfasciacarrozze” che si presentò con una pistola alla cintura.  Parlava bene, ci fece uno sconto di qualche centinaia di migliaia di lire, ci condusse in agenzia e finalizzammo la vendita.

La domenica successiva alle nove di mattina mi misi per la prima volta al timone dell’Arturo, scomodissimo perché la ruota era posizionata dietro al sedile e si poteva governare solo di fianco.  Prua su Anzio. Mare forza zero, poco vento, ma: “finche la barca va lasciala andare!”  Poche miglia appresso la mia felicità fu offuscata da Paride, che cominciò a raccare fuori bordo e proseguì quasi ininterrottamente fino ad Anzio, dove sbarcò e tornò a Roma via terra. Questo fu solo l’inizio……