giovedì, Maggio 29, 2025

Generalità parte 1 di 2

Credo che pochi conoscano Nunzio Platania, detto il Vate: grande velista e grande scrittore.
È il presidente di TAMATA, un circolo Nautico di Catania, e sono stato suo ospite con il Sound of Silence quando anni fa portai la (allora) mia barca a Marina di Ragusa.
Ho già pubblicato alcuni suoi racconti, per chi non lo avesse ancora fatto consiglio di leggere DAFNE, la mia prima barca: è stato il primo racconto che ho pubblicato su questo sito.
Generalità, che leggete di seguito, è stato scritto in 20 pagine, per cui lo pubblico in due puntate. Spero condividiate, ma se invece quando ci sono racconti lunghi volete leggerli tutti d’un fiato, scrivetemi.

Generalità

Nunzio Platania & Anonimo velista
Art director Sergio Polini
Supervisione alla produzione Ugo Marinelli
Distribuzione Mauro Fornasari
Edizioni VeLista Corporation

Tonino era nato in quello stesso quartiere una quarantina d’anni prima. Allora abitava qualche centinaio di metri più in là, alle case popolari. Un padre, una madre, una sorella di tre anni più grande. Papà lavorava alla SNIA, quella grossa fabbrica in fondo al vialone, tutta circondata da un lunghissimo muro e dal quale si vedeva soltanto qualche tetto di capannoni e delle altissime ciminiere.

Quando era piccolo il quartiere non era neanche una periferia, era una specie di città a sé. Per arrivare alla città, quella vera, bisognava attraversare un bel pezzo di campagna. Invece adesso la città l’aveva raggiunti e superati, ma il quartiere era rimasto una cosa a sé, isolato pur essendo totalmente immerso nella grande città. Per un certo periodo le cose erano andate abbastanza bene. Papà usciva dalla fabbrica verso le sei e si fermava all’osteria fino a ora di cena. Lui, come sua sorella, andava a scuola dalle monache, dall’altra parte del viale e mamma mandava avanti la casa. Poi, quando aveva circa dodici anni le cose cominciarono a cambiare. Papà ebbe un incidente alla fabbrica e rimase invalido ad una gamba. Non poteva più lavorare e gli diedero la pensione. Ma passava le giornate all’osteria e si ubriacava di brutto. La vita in casa era diventata difficile e quando papà tornava erano spesso furibonde litigate e mamma spesso le prendeva…Sempre peggio di giorno in giorno, sempre peggio. Mamma aveva cominciato a fare le pulizie alla Standa per tirare avanti ma le cose andavano sempre peggio. Per la mamma specialmente che stava fuori tutto il giorno a lavorare e quando tornava spesso prendeva anche le botte. Accade tutto in poco tempo, forse tre, forse quattro mesi: mamma se ne va con uno che portava il camion per la Standa, papà va in ospedale, poi esce, poi torna in ospedale e poi al cimitero.

Caterina, la sorella, aveva già sedici anni e aveva imparato a tirare avanti la casa. Di andare a scuola non se ne parlava più e Tonino cominciò a lavorare dal sor Ignazio che faceva il carrozziere e tutti lo chiamavano Zagaja perché balbettava.

Vennero altri giorni difficili. Caterina, che era rimasta incinta, se ne andò a vivere al Nord con uno più grande di lei. L’istituto volle indietro la casa e Tonino cominciò a dormire a bottega. Ma i soldi che prendeva gli bastavano appena per vivere anche se ogni tanto Mamma gli mandava qualche cosa alla posta.

Fu facile imparare a aprire le Mercedes. Con uno spadino, delicatamente, fino che sentivi un piccolo scatto. E poi via… via a tutta velocità …di corsa allo sfascio. In quindici minuti la macchina era tagliata. Quaranta, cinquanta e qualche volta anche centomila lire a sera. Ernesto portava la lambretta e si prendeva una piccola parte. Aveva ventun anni, due camere al palazzo vicino alla posta e girava con la Giulia. La domenica con Ernesto, la cugina e altri tre o quattro sbandati come loro andavano al mare e poi al ristorante. Poi vennero quattordici mesi di carcere per aver mandato fuori strada una pantera della polizia che lo inseguiva.

La vita in carcere non era facile ma Tonino aveva imparato a usare bene il coltello e poi era uno che si faceva gli affari suoi. Quel giorno che quello zozzone del barese fece la festa a Santino che aveva appena diciott’anni Tonino imparò che non era difficile aprire qualcuno. Bisognava affondare bene il coltello e tirare su. Il barese non riusciva a vederlo perché era buio alle lavanderie e perché aveva gli occhi coperti di sangue, ma lui stette per diverso tempo a fissarlo che si reggeva le budella. E come provava a gridare gli dava un calcio sulla faccia. Il Barese non parlò, meglio per lui… Tonino finiti i due anni tornò al suo quartiere. Mercedes, qualche Alfa e una volta una Maserati. Ma quella Maserati era sfortunata e lui era ubriaco: gli dettero due anni.

Poi venne il periodo delle BMW. Quelle non le tagliavano perché c’era uno che gli rifaceva i numeri. E le pagavano bene. Ma bisognava portarle lontano e la strada era pericolosa e spesso incontrava la polizia. Fu così che con Salvo, il figlio di Zagaja, si fecero un rappresentate di gioielli. Non fu facile perché quello non mollava la valigia. Dovettero trascinarlo quasi duecento metri. Ma per fortuna quello sbatte conto il marciapiedi e molla la valigia. Ma parecchi li avevano visti e anche il rappresentante sarebbe stato capace di riconoscerli. Per un bel periodo stette senza lavorare anche perché la valigia era piena e aveva fruttato bene.

Al ristorante dello stabilimento dove andava la domenica aveva conosciuto Marisa, una che lavorava per uno. Ma questo era balordo, un mezzo drogato e Marisa alla fine andò a stare da lui. La sera l’accompagnava in fondo al vialone, dietro la Snia, dove c’era il piazzale dei camion e si metteva dietro la cabina dell’elettricità a controllare che tutto andasse bene. Marisa stava laggiù, si vedeva appena. Montava sulle macchine e andavano sul pratone.

Anche lui era andato sul pratone da ragazzo. Parecchie volte. Prima con Firmina che era una che andava con tutti ma era una mezza matta. Poi con la moglie del macellaio, la cugina di Ernesto e tante altre…

Adesso il pratone lo frequentavano le puttane e c’era proprio un bel movimento…

Quando Marisa si ammalò gli dette un po’ di soldi e la rimandò al paese suo. Con quei quaranta milioni Marisa si comprò una frutteria e qualche volta gli scriveva.

Coi soldi che gli erano rimasti comprò due ucraine da uno zingaro. Le ucraine sono brave, sanno il mestiere e sono pulite. Anche la casa era pulita. Ma qualche volta aveva dovuto picchiarle di brutto perché volevano andarsene. Che stronze! Lui le teneva come due regine, non gli faceva mancare niente e quelle se ne volevano andare… Stavano bene le negre che ogni tanto ne trovavano una bruciata!

Maria non si chiamava Maria, ma aveva un nome russo, difficile. Era molto bella e gli costò parecchio. Maria aveva un figlio in Russia e ogni mese gli mandava un assegno e ogni tanto un pacco coi giocattoli che si trovano da noi e che da loro non c’erano.

Il ragazzo stava con la nonna e tutti e due abitavano in una casa vicino Kiev che Maria si era comprata dallo stato e che pagava un tanto ogni sei mesi.

Maria non voleva tornare, ma qualche volta piangeva. Si era affezionato a Maria e qualche volta gli era dispiaciuto accompagnarla al lavoro. Anche le due ucraine andavano d’accordo con Maria e quando la domenica andavano al mare sembravano una bella comitiva.

Adesso abitava in un appartamento a piano terra con un pezzetto di giardino e il posto per la Mercedes. Maria aveva piantato le rose e le curava e queste quando fiorivano erano un spettacolo.

Un’estate partirono tutti e quattro e andarono in Ucraina. Tonino aveva paura che le due galline sarebbero volute rimanere al paese loro, ma dopo sei giorni di caldo e zanzare furono loro a fare i bagagli per prime.

Adesso al piazzale c’erano anche le negre e tre quattro travestiti. Ma l’aria si era fatta pesante. Un albanese aveva provato a stringerlo con la macchina ma lui l’aveva mandato fuori strada. La sapeva guidare bene la macchina e poi l’albanese non era madama con la Giulia…

Ma quella sera c’era qualcosa che non andava.

Maria era rimasta a casa e dopo aver accompagnato le galline al lavoro Tonino decide di andare da Ernesto per prenderlo e portarselo con lui. Ernesto adesso faceva l’elettrauto, ma sapeva usare bene il coltello e era sveglio. E poi era un amico, forse l’unico e quindi il migliore. Mettendo in moto si accorge dallo specchietto che una macchina dal pratone parte insieme a lui. Imbocca il vialone e quello dietro. Accelera e quello accelera. Allora gira per il ponte e prende per la tangenziale e quello sempre dietro.

Sulla tangenziale la Bmw che lo inseguiva gli si avvicina. C’erano diverse macchine sulla tangenziale e non poteva correre. E poi quella Bmw camminava come un’ “addannata”.

All’ imboccatura della prima galleria gli sta a cento metri, ma ecco che quelli cominciano a sparare.

In mezzo alle macchine, come nei film. Tonino ce la mette tutta, ma la sua macchina é molto più pesante e lenta. L’uscita per la statale la imbocca a quasi duecento all’ora e la Mercedes sbanda e quasi si traversa. Ma Tonino la riprende e imbocca la statale che a quell’ora era sgombra. Le curve della statale le conosce bene e riesce a prendere parecchia distanza dagli albanesi che però non lo mollano.

– “Ma certo! Mi stanno facendo perdere tempo!”

– “Che fesso non c’ho pensato…!”

Tonino entra al piazzale della Esso, inchioda e con un testacoda riparte a tutta velocità nell’altra direzione. Mentre esce dalla Esso arriva la Bmw degli albanesi, ma quelli sono lenti e non fanno in tempo a frenare e lo prendono di striscio sulla coda. Tonino sbanda ma poi regge la macchina; gli albanesi no. Vanno dritti, entrano alla Esso. Prima prendono di fianco l’insegna e poi in pieno, dritto per dritto contro il ponte del lavaggio. Ok, il gioco é finito.

Tonino corre a mille verso casa.

La luce lampeggiante blu dei pompieri la vede da lontano, appena girato dalla piazza.

Lascia la macchina a duecento metri e corre verso casa dove si vedeva il fumo e c’era il camion dei pompieri. La gente stava intorno, sul marciapiedi, molti affacciati alle finestre, qualcuno gridava qualcosa. Gianni il barbiere lo prende per un braccio.

“Maria l’hanno portata via con l’ambulanza proprio adesso…”

– “Che gli hanno fatto?”

– “Pezzi di merda, sono entrati e hanno cominciato a picchiare ma Maria urlava e il muratore, Gino, ha sentito e ha preso il piccone e uno l’ha preso su una spalla e gli ha fatto un buco così. L’altro bastardo é scappato ma prima ha buttato la benzina e ha acceso…”

Ma Maria…”

– “Maria era piena di benzina ma Gino e il cognato l’hanno presa e sono riusciti e spegnerla… é ridotta male, però…”

– “Bastardi, pezzi di merda…”

– “Sono quegli albanesi, Ginko… sì! Ginko… si chiama Ginko quel fijo di mignotta”

– “Dove stanno?”

– “Non lo so, una volta li ho visti dietro a Panorama ma non lo so dove stanno…”

– “Li trovo… stai tranquillo che li trovo…”

Tonino monta sulla Mercedes e corre al pratone. Spegne i fari e si avvicina. Dentro una Opel una negra di Ginko sta facendo un lavoro a uno.

All’improvviso Tonino apre la portiera della macchina e afferra la negra per i capelli e la sbatte giù dalla macchina. Quella urla per il dolore e la paura e quel vecchio che gli stava sotto coi pantaloni tirati giù rimane immobile con tutto l’uccello di fuori.

“Dove sta?” – mentre col coltello gli segna la gola.

– “No male… No male… dico io… dico… tu no male”

La negra parla, indica con precisione la casa dell’albanese. Ma Tonino ha il coltello caldo e glielo infila in pancia. Ma non tira su…

Il vecchio intanto é bianco come un morto e inebetito gli porge il portafogli, tremando, forse pensa ad una rapina.

Tonino senza dire una parola pulisce il coltello sulla gonna della puttana, prende il portafogli e torna alla macchina.

Ha capito dove abita l’albanese. In quel palazzo una volta ci stava lo strozzino dove andavano quando non c’erano soldi. Lo conosceva molto bene quel palazzo…

Carica le due ucraine e le accompagna da Ernesto. Ernesto dormiva e la moglie si é spaventata quando ha visto il sangue sui pantaloni di Tonino. Ma Ernesto é uno regolare e non ha fatto domande.

La casa dell’Albanese é in un palazzo anni settanta, rifinito a calce sbruffata ma molto elegante. Quattro piani, dà su un cortile con altre quattro palazzine intorno.

Grandi alberi nel cortile e molti fiori. Anche una fontana da una parte, coi pesci rossi… Quando andavano dallo strozzino una volta la sorella gli disse di giocare coi pesci rossi che lei doveva tornare su per fare i conti. Ma i conti erano lunghi… Chi ci rimise di più fu un pesce rosso, il più grosso ma anche il più fesso e come saltava sulla ghiaia! Avrebbe voluto urlare, il pesce rosso, ma non gli veniva… Poi si é calmato, un sussulto… un altro sussulto e basta. E guardava per aria e sembrava meravigliato di tutta quella luce…

Il condominio é tutto recintato ma proprio sotto la casa dell’albanese c’é un pino. Tra la recinzione e il terrazzo dell’albanese.

E’ un attimo, Tonino é su: non ha sentito niente nessuno. L’albanese sta nella camera accanto al terrazzo, una camera da letto e sul comodino si vede il cucchiaino e una bottiglia. Sta sul letto e vede la televisione. Ma é caldo e le finestre sono aperte. Si sente sicuro il bastardo…

Quando Tonino spalanca la porta quasi inciampa in una nuda che stava per terra, ma questa é fatta e lo manda a fare in culo e si gira dall’altra parte. L’albanese invece ha già capito tutto e sta andando a prendere la pistola sul comò. Ma non arriva al comò che il suo sangue caldo é già arrivato sullo specchio. Esce a grossi schizzi dalla gola. Forse l’albanese fa in tempo a guardarsi allo specchio prima che si riempia di sangue. La puttana che stava con lui vedendo tutto quel sangue comincia a urlare ma basta l’abat-jour a farla stare zitta. L’albanese non si muove più e il sangue continua a sgorgare a fiotti, come la fontanella in cortile…

Ernesto vedendo tutto quel sangue addosso a Tonino capisce subito che non é il suo.

Le due ucraine stanno in salotto e piangono a singhiozzi. Simona, la moglie di Ernesto, con uno straccio pulisce il sangue dal pianerottolo e dall’ascensore mentre Ernesto va in bagno con Tonino che si deve lavare.

“Maria sta all’ospedale al reparto grandi ustioni. Mara e la figlia del portiere sono andate con lei in ambulanza.”

– “Come sta?”

– “Uno schifo, la faccia é bruciata, anche le spalle ma pare che non sono bruciature profonde… Ce la farà.”

– “Chi c’é con lei?”

– “Nessuno perché al reparto non ti fanno stare, neanche i parenti…”

– “Soffre?”

– “Mara ha parlato con un dottore e quello dice che é molto doloroso ma che adesso gli davano qualche calmante… Maria si lamenta appena…”

– “Dobbiamo portare via la macchina, lontano. Prendi la tua e vienimi dietro”

Ernesto prende la sua macchina, il fiorino della ditta e si mette dietro alla Mercedes di Tonino.

Tonino imbocca il raccordo ed esce sulla strada che va al mare. Alla prima piazzola si ferma e scende.

Apre il bagagliaio della Mercedes e prende un pacchetto da sotto la ruota di scorta. Saranno le quattro é buio, nessuno li ha visti. Monta sul fiorino di Ernesto e tornano a casa. All’incrocio prima del raccordo ci sono i carabinieri. Ma fortunatamente hanno già un cliente: un camionista che porta le bestie al macello sta facendo vedere i documenti all’appuntato e l’altro carabiniere, quello con la machine-pistola sta troppo dietro per vederlo bene in faccia. Ernesto sa il fatto suo, fa il disinvolto e fa finta di parlare con Tonino. Quando scatta il verde e il fiorino riparte, ricominciano a respirare.

Tonino e le due ucraine passano due giorni da Ernesto ma sanno che non possono stare a lungo. Tonino é ricercato dalla polizia …e dagli albanesi.

Sarebbe meglio la polizia, ma stavolta se gli va bene sono vent’anni. Vent’anni di carcere a quarant’anni é la fine. Quando esci sei da buttare, la vita é finita!

Sarebbe stata bella la vita.

Con Maria. Sarebbe stata proprio molto bella.

Maria era bella e in questi quattro anni era diventata ancora più bella. Le si erano addolciti i lineamenti e quella piccola ruga sul sorriso gli piaceva proprio tanto. E quando rideva si illuminava… Una volta si era svegliato dal sonno, forse si sentiva osservato. Maria stava accanto a lui, sveglia e lo guardava. E aveva gli occhi umidi. Povera Maria, quante ne aveva passate…

Adesso avrebbe potuto respirare un po’.

Avrebbero smesso quella vita. Aveva dei soldi alla posta, non tanti. Ma al paese di Maria si poteva vivere con poco e sarebbe bastati per molto tempo. Forse per tutta la vita…

Invece tutto era finito.

Doveva scappare. Da solo. Solo come é sola una bestia davanti ai cacciatori. Lui Maria forse l’amava. Amore é una parola, ma non é quella giusta. Ci stava bene insieme. Le ore passavano leggere. Gli piaceva stare a tavola con Maria, quando lei gli faceva la porzione. E gli piaceva guardarla quando lavava i piatti o quando stirava.

Scene di una vita familiare, una vita come tutte le famiglie, quelle normali. Adesso Maria stava in un letto all’ ospedale e fuori dalla sua stanza un carabiniere.

Non poteva andarla a trovare, a dirle che voleva vivere con lei per tutto il resto della vita, a dirle che sarebbero stati proprio bene insieme… E forse era meglio così. Ognuno per la sua strada senza troppi rimpianti.

“Ernesto, senti… In questi libretti della posta ci sono duecentosettanta milioni. Cinquantamilioni li dividi tra le due galline e le metti sul treno per il paese loro. Tutto il resto é per Maria. Stalle dietro, falla curare. Poi la riaccompagni al paese suo.”

– “E tu?”

– “Io sparisco. Qui non c’é posto per me.”

– “E dove vai?”

– “Erné, non lo so, ma il mondo é grande. Sono quarant’anni che sto in questa merda…

Uscirono di casa alle sei.

Tonino senza farsi vedere da nessuno salì dietro al fiorino e si accovacciò. Quando furono vicino alla stazione Ernesto si fermò in doppia fila e scese dal fiorino.

Apri la portiera dietro del furgoncino e Tonino uscì con disinvoltura. Si guardarono per un attimo. Senza parlare.

Ernesto avrebbe voluto almeno abbracciarlo. Ma non gli veniva… Tonino con la destra si slaccia il rolex d’oro: – “Questo dà troppo nell’occhio…” – Prende la mano di Ernesto e glielo stringe nella mano, si volta e si incammina ai treni.

La stazione era piena di gente ma c’erano anche dei poliziotti, proprio davanti al varco che doveva attraversare.

Mentre cerca una soluzione arriva un gruppo di persone con un prete in testa. Immediatamente si mette in mezzo al gruppo e con loro sale sul treno. Il treno parte dopo pochi minuti. Senza fischi, senza clamore, prima piano, appena impercettibilmente, poi sempre più velocemente.

Velocemente via, lontano da tutto, dal quartiere, dalle puttane, dai morti ammazzati, dagli albanesi, da Maria…

Saranno state le due; o forse le tre. Adesso il treno viaggiava lentamente. Tonino stava quasi affacciato ad un finestrino vicino alle porte del vagone. Dal corridoio degli scompartimenti si sentivano respiri pesanti, qualcuno russava.

C’era una luce in fondo alla campagna. Intorno tutto era buio, senza luna. La luce era un lampione e dietro il lampione una casa semplice e una 128 verde. La casa e la luce lentamente scompaiono. Al loro posto un’altra luce, un’altra casa, poi buio, poi un gruppo di luci più lontane. Le mani in tasca gli fanno male a stare ferme. Doveva stare lì a guardare le luci lontane. Ma le mani volevano afferrare, colpire, strappare…

“Chi ci abita in quella casa? Ha mangiato, ha visto la televisione e adesso dorme, magari sta scopando sua moglie, no sono le due: é troppo tardi al massimo a mezzanotte; ti devi alzare presto.

Una tirata più forte piena il fumo entra in profondità nei polmoni, sapore cattivo, di salame; l’aria calda e le cicale; che casino fanno le cicale, più casino del treno. Fumo, la brace della sigaretta afflosciata risucchiata via, la cenere col mignolo, non sento il calore…”

– “Mi scusi potrebbe offrirmi una sigaretta? …” – Alla destra di Tonino era apparsa una donna. Tonino non aveva sentito aprire la porta del corridoio. Un vestito sul verde con dei disegni e bottoni piccoli bianchi, sandali con un po’ di tacco.

Qualche chilo in più specialmente lì vicino alla cinta del vestito. I capelli ricci tirati un po’ indietro scuri, forse neri.

– “Ce l’ho nella borsa in alto e ho paura di svegliare tutti…” – come per scusarsi e superare l’imbarazzo. Era imbarazzata. Tonino la stava guardando e non aveva risposto. Il silenzio era pesante. Adesso lei era pentita di averglielo chiesto. Tonino le stava guardando gli occhi. Capiva il suo imbarazzo, forse si vergognava…

Trentacinque o forse quarant’anni, il sabato col carrello al centro commerciale, una mamma come tante, con la casa pulita e i punti del latte che ti regalano gli asciugamani. Finalmente Tonino con la destra tira fuori le sigarette dal taschino. Lei si sente sollevata. Diretto, senza preamboli, la colpisce:

– “Come ti chiami?”

– “…Ida…”

Ida non avrebbe voluto rispondergli. Avrebbe voluto dirgli: “Che te ne importa” o “Non sono fatti tuoi”. Al bar dove lavora spesso aveva risposto a qualcuno che faceva lo stupido. Ma adesso Ida aveva gli occhi un po’ abbassati. Li chiuse quando l’accendino si accese e li riaprì tirando con la sigaretta. Adesso lo guardava; la sigaretta le aveva dato coraggio. – “Da dove vieni?” – “Da Perugia, in provincia. Abbiamo un bar da tre anni, ma prima facevo la sarta. Adesso ci facciamo le ferie in Sicilia. Mio marito fa pesca subacquea e dice che é molto bello, ma io un po’ mi rompo perché dove andiamo noi non c’é quasi niente. L’altr’anno siamo stati a Marettimo. Un posto bellissimo ma un caldo… Eppoi manco un negozio”.

Adesso non la smetteva di parlare. Le stava raccontando tutta la sua vita. Del bar che avevano rilevato da una zia di Alfredo, il marito, che gli davano un tanto al mese e che adesso il bar andava bene, che le vacanze prima le facevano a Pesaro, ma che poi Alfredo si era appassionato di pesca subacquea e che avevano cominciato ad andare in Sicilia. Quest’anno andavano a Ustica e sperava che ci fosse un po’ più di movimento. Una sta tutto l’anno chiusa in un bar in un paese di seimila abitanti e poi le vacanze le fa in un posto ancora più disabitato. Era meglio Pesaro almeno una il pomeriggio poteva fare una passeggiata in città e i bambini si divertivano. A Marettimo non avevano trovato quasi niente e la gente era strana, poca voglia di parlare e un diffidente… pescatori… Sì il posto era molto bello, ma caldo, che caldo che avevano patito! Fino alle sei del pomeriggio non girava nessuno e la casa che avevano affittato non aveva neanche la televisione. Avevano speso poco, meno che a Pesaro e poi compravano il pesce che era freschissimo, appena pescato. Ma la casa che avevano preso in affitto era un po’ lontana dal paese e la sera a tornare era buio e potevi inciampare.

Tonino stava per essere sopraffatto da tutte quelle chiacchiere. Ida gli parlava appoggiata al finestrino, la destra con la sigaretta in alto vicino alla bocca e l’altra appoggiata sulla pancia toccava il gomito della destra. Nel complesso insignificante. Si vedeva che era ingrassata di recente perché il vestito le tirava sui fianchi. Le gambe erano belle, dritte ma anche sulle ginocchia si vedeva che era ingrassata.

Ida stava raccontando che avevano fatto amicizia con dei milanesi che avevano anche loro due figli, ma spalancò gli occhi quando Tonino le prese la sinistra e la premette forte contro i suoi pantaloni.

“Tu… Tu… Tu sei…”

– “Zitta! stai zitta…” – e con l’altra mano si tirava giù la lampo. Ida era impietrita. Lo fissava impaurita e sgomenta. Avrebbe voluto dire qualcosa ma lui la fissava. Ida si lasciava guidare la mano. No, non poteva lasciarlo fare, doveva urlare, svegliare tutti: Alfredo, i bambini, quelli che dormivano… Ma era duro e caldo e le piaceva stringerlo forte. Tonino aprì la porta del cesso e la spinse dentro. Si sentiva forte il rumore del treno. Lui le scoprì il seno, grosso e lei, appoggiata col sedere sul lavandino, lo accolse tra le gambe. Tonino era furioso. La stava scopando con rabbia. Lui la stava usando e lei si faceva usare. Doveva essere una sveltina, ma non riusciva a venire. Forte, sempre più forte, ma non riusciva a concludere. E allora più forte, ancora più forte. Lo sentiva nel cannello, caldo ma non usciva. Ida era sconvolta e lo stringeva con le gambe e le unghie nella pelle. Dieci, venti, forse trenta minuti, non si finiva mai. Era rabbioso e sudato. Poi fu liberato, ma senza piacere. Aveva il fiatone e il sudore gli colava dalla fronte. Ida era sfinita e lasciò cadere le braccia, lasciando la presa delle gambe. Adesso risentivano il rumore del treno: aveva ricominciato a correre e dal finestrino del cesso entrava una violenta corrente d’aria calda. Si sentiva un forte odore di disinfettante e di piscio. Tonino teneva lo sguardo basso, guardava altrove. Ida era proprio insignificante, il naso irregolare e le labbra sottili. Gli faceva schifo. Ida fece per abbracciarlo e lui se ne distaccò.

La cosa finì lì senza parole, addii, promesse. Non una parola. Tonino non voleva parlare, Ida non sapeva che dire e si vergognava. Si rivestirono in silenzio. Fuori dal cesso Tonino prese una sigaretta e la avvicinò alle labbra di Ida che la prese con le dita. Le accese la sigaretta e si girò. Entrando nello scompartimento la vide in fondo al corridoio che fumava e lo guardava. Chiuse la porta dello scompartimento, inciampo’ nel piede di uno e si mise seduto. – “Marettimo… deve essere un bel posto…” – e prese sonno.

Il treno su cui era salito era diretto verso il profondo sud.

Era senza biglietto e al controllore farfugliò che forse l’aveva perso oppure dimenticato.

Pagò anche l’ammenda e poi sprofondò in un turbinio di pensieri: ripassò mentalmente gli accadimenti recenti, nessun rimorso per ciò che aveva fatto, solo una stretta ai visceri ogni volta il suo pensiero andava a quella poveretta di Maria.

Non fece che pensarci durante quel lungo viaggio.

Aveva trattenuto poco denaro con sé, appena per vivere qualche mese; ma questo non lo preoccupava tanto: sapeva che dalla sua travagliata vita aveva ricavato quella certezza di sapersi sempre tirare fuori dagli impicci.

E poi il mestiere lo conosceva bene, bisognava però passare inosservato e non esporsi per un certo tempo, quindi considerò inevitabile di doversi eventualmente procurare un lavoro umile e nascosto, di quello in cui non c’é neppure bisogno di dire il proprio nome.

1-continua