Ottobre – Rodolfo Ridolfi
Il personaggio del mese: Rodolfo Ridolfi del Freccia
“Come la maggior parte dei velisti, ho sempre avuto ‘quel sogno nel cassetto’, sorto a seguito delle numerose letture di mare all’epoca dei sogni giovanili. Dopo aver perso due occasioni in gioventù, a cinquantadue anni mi si presenta l’ultima ed eccomi ora a bordo di Freccia mentre osservo il Mediterraneo allontanarsi sulla sua scia e l’avventura che si avvicina. In fondo è ciò che ho sempre desiderato. Sono partito per partire, senza l’obbligo di arrivare o dimostrare, senza sponsor: semplicemente non volevo lasciare il mio sogno intentato. La graduale realizzazione è stata una continua scoperta di luoghi, popoli e di me stesso”…
Antonio mi ha spesso parlato di te, mi diceva che dovevo conoscerti per intervistarti, ma non c’è mai stata l’occasione, anche perchè avevo una lista di personaggi che anche adesso finirebbe a dicembre dell’anno prossimo. Poi c’è stato un episodio che ha dato una svolta: la serata che ho organizzato a Verona con Luciano Làdavas, dove arrivando in sala per tempo ho visto un signore, il primo ospite, che aspettava il navigatore per farsi fare la dedica sul libro L’esilio dei sogni.
Mi presento, lui sapeva chi ero, e mi dice che ha già due libri di Làdavas, ma uno con dedica gli mancava, e poi…..conoscere un cotal personaggio non è cosa di tutti i giorni…e se io non mi sbaglio già lo conosceva….
Due parole scambiate in fretta, collego il suo nome a Freccia (che è il nome della sua barca e così lo chiama Antonio Penati), e nasce l’impegno a rivederci.
Così ho avuto il tempo di leggere il tuo libro, e mi ha colpito la poliedricità di approcci che hai dato: non possiamo chiamarlo diario, neppure racconto di viaggio, direi che racconta chi sei, una persona curiosa, positiva, sicura, che alla fine scopre (forse) il significato della vita: che oggi mi racconterai.
Pur contemplando il percorso classico di chi circumnaviga il mondo in barca, il tuo libro contiene «….le sequenze di pensiero e sensazioni che si sono susseguite durante il viaggio…..», ed io ho preso molti spunti dai quali ho tratto anche il taglio dell’intervista.
Hai scritto: «……mi sono accorto in seguito, infatti, che stavo percorrendo un duplice viaggio: quello fisico attorno al pianeta Terra e un altro, più intimo, all’interno del pianeta Rodolfo»
Prima di incontrarti ho cercato materiale su di te in internet, ho letto il tuo libro, preziosissimo, e vorrei iniziare proprio dal testo che hai scritto. Me ne vuoi parlare?
Rispondo alla domanda: il libro è un po’ diario e un po’ anima; è stato scritto di notte, al 90% durante la navigazione. Ti dirò che era di notte anche quando l’ho preso in mano a Ferrara, dalla minuta, dalla traccia, dal book log.
Non lo so, ma di notte sentivo una maggior connessione con me stesso. Ho detto: “Rodolfo, tu devi scrivere tale quale quello che hai scritto in quell’istante, non devi correggere e scrivere un libro a freddo”. E così ho fatto, sono stato ligio e mi sono limitato a riportare quello che ho scritto in quei momenti, ed è forse questo che tu hai colto. Scusami se dico che non è un libro normale, forse è più una confessione, un’apertura del mio lato emotivo, e che ho lasciato integro, anche in certe parti che sono stato tentato di togliere, ma poi mi sono ricordato la promessa di non cambiare nulla.
Hai detto bene. Scrivendo che è un viaggio nel pianeta Rodolfo è più semplice affrontare la lettura di tutto. D’altronde è questione di metodo, abbiamo navigato tutti parecchio, e nell’arco della giornata o di notte, quando sei solo in pozzetto, sai che la testa va dove vuole, e se tu la lasci andare ed accondiscendi ai pensieri che ti sfilano e fai introspezione, scopri continuamente mondi nuovi, e se poi sei curioso questo diventa un modello anche per passare il tempo.
E allora… Chi è Rodolfo oggi?
È una persona diversa da quella che era quando è partita, perché non si può uscire indenni da una esperienza simile. Per sintetizzare potrei dirti che ho cambiato segno zodiacale.
Wow, e prima che cos’era?
Prima ero un capricorno, introverso, taciturno, adesso sono diventato un gemello amichevole, voglioso.
Un gemello? ma non sai mai chi sei, chi hai davanti, perchè il gemello è doppio.
Esatto, comunque sono cambiato rispetto a quello di prima, sono voglioso di chiacchierare, di parlare e delle volte mi secca anche, perché ricordandomi come ero prima, e dicevo…” ma qui parlano, parlano tutti, parlano e basta”…, delle volte mi vergogno un pò di parlare così tanto. Quindi, sono cambiato, certamente.
Visto che sei cambiato, adesso la tua filosofia di vita qual’ è?
La mia filosofia di vita è cambiata perché sono cambiati i tempi, è cambiata l’età, ed è chiaro come io la chiamerei: è una parola pesante, però, siccome cerco sempre di avere i piedi a terra, di essere realistico, da capricorno, io la chiamo “filosofia di fine vita” e non dico che per questo mi pesa, però è la verità. Cerco di darmi ancora qualcosa da fare, di seguire qualche sogno che non è più quello di prima, però ho ancora dei sogni, delle passioni limitate che cerco di realizzare. Mi piace per esempio studiare la botanica, le erbe aromatiche, le erbe officinali, le erbe alimurgiche, e dal punto di vista dell’attività motoria, faccio un po’ di bicicletta, dopo che il dottore mi ha detto che non posso più camminare e correre.
Quello che sto cercando di fare con questa mia filosofia è far stare bene le persone che sono attorno a me, gli amici, mia moglie: questa è la mia mission.
Nel libro tu parli di due vite, ma sono effettivamente due persone diverse, oppure il cambiamento di segno zodiacale che tu dici riconduce effettivamente al segno dei gemelli, per cui la persona di prima era una cosa, e la persona che ti ritrovi adesso è un’altra. Nella prima vita chi eri? Mi sembra che tu lavorassi in banca.
Sì, la prima vita era da ordinary people, una persona normale, qualunque, che timbrava il cartellino e svolgeva le sue giornate sempre uguali l’una all’altra, vedendo le stesse facce, le stesse occupazioni. Io sentivo, avvertivo che non era la mia vita, io non ero fatto per stare chiuso fra quattro mura, io volevo spaziare, mi sembrava di avere la maschera di ferro (come quel re di Francia che aveva la maschera), che impediva alla testa, alla mente di sfogare le mie passioni, i miei desideri. Tant’è che ho rischiato, ho rischiato grosso, ho dovuto andare anche da uno psicologo, il quale ha capito subito, non mi ha fatto spendere più di tanto, mi ha semplicemente detto «Tu non sei ammalato, prendi una decisione, non è utile che tu venga qua a spendere dei soldi per farti curare».
Quanti ne avevi?
Dunque… a 26 anni mi sono sposato, quindi avevo 34 anni.
Nel pieno della maturità… si capisce la vita.
Esatto, ti dirò di più: ho capito che, anzi, ho tardato perché il fatto di aver reagito tardi mi ha tarpato le ali, in un certo senso, e ha limitato quelle che potevano essere le mie ambizioni. In quei tempi si poteva cambiare lavoro. Ho iniziato nell’ambito nautico perché volevo trasformare la mia passione in lavoro.
E così ho cominciato a lavorare con le prime società di charter, perché erano gli albori dell’attività nautica, si stava scoprendo allora…
Negli anni 80? Ai tempi di Carlo Venco e di Angelo Preden?
Gli stessi, esatto. Loro hanno cominciato come attività primaria, chiaramente, e io ho cominciato in piccolo a lavorare nel Mediterraneo, in Adriatico, poi come velaio in una veleria e mi sono accorto di una cosa, che trasformando la mia passione in lavoro, la mia passione non era più la stessa. Sono ritornato indietro, sono regredito, ho piantato tutto, ho piantato anche il lavoro di velaio.
Facevo charter per conto mio con gli amici, continuando però nel contempo lo studio dell’attività velica, l’esperienza di andare per mare. Ho fatto miglia e miglia e regate: le regate che considero un’esperienza accelerata di apprendimento nautico.
Ne parlavo ieri con Ida Castiglioni, e anche lei sosteneva la competizione come elemento di miglioramento
Sì, è un corso accelerato, veramente. Quando sei in equipaggio puoi pensare solo a te stesso, quindi puoi forzare. Ti permette di accelerare l’apprendimento, di conoscere di più te stesso, ti permette di conoscere i tuoi limiti, che sono sempre, sempre superiori a quel che immagini. Finchè arrivi a un certo punto dove ti rendi conto che puoi andare oltre. E questa è una scoperta stupenda.
Questo ti rende forte sicuro quando sei tu che diventi responsabile dell’equipaggio. Lì entrano in ballo altri fattori, però il fatto di essere sicuro di te stesso ti aiuta moltissimo, è determinante, basilare.
Poi diventa quasi una condizione mentale che ti fa alzare di livello ogni volta, per cui scopri che non è necessario che ci sia un unico percorso nella vita, ma i percorsi sono il tuo modo di pensare. La curiosità ti guida nella vita. La curiosità è il superamento di un limite, è un’esperienza nuova da fare. È una concezione diversa.
Non è facile da capire perché soltanto chi ha navigato o chi ha girato in barca per gli oceani può avere questo senso, dove è tutto relativo. Devi fidarti di te e nel fidarti di te devi sapere che devi fidarti di un mezzo che ti consente di vivere, perché il mare ti presenta ogni giorno, ogni momento, situazioni diverse che tu devi affrontare. Non sono come le situazioni della terra ferma, perché quelle del mare sono completamente diverse, sono quelle che ti portano in giro per il mondo.
Colgo il tuo pensiero e proseguo da dove hai terminato tu. Andare per mare richiede un valore aggiunto rispetto agli altri sport terrestri, perché ci si deve confrontare con un elemento, l’acqua, subdolo, che non è il nostro elemento. Noi siamo terricoli, abbiamo bisogno di avere degli appoggi su cui mettere i piedi e se questo succede in mare vuol dire che sei a scogli, no? Quindi devi stare molto attento a questo, avere sempre l’umiltà di apprendere, apprendere dall’esperienza, dagli altri, cosa che oggi i giovani non fanno più, perchè l’esperienza l’apprendono in internet.
E l’andar per mare ti fa rimanere umile, e ti fa riconoscere quei valori del sacrificio, della fatica, oggi desueti, se non sconosciuti addirittura, che invece servono per formare una personalità. Questo vale specialmente per i giovani, dimentichi di questo per colpa dei devices del progresso, che invece potrebbero ricevere dal mare un aiuto non solo dal punto di vista della formazione del carattere, ma nel contempo li aiuterebbe ad allontanarsi dai pericoli della strada.
Riprendiamo con un altro concetto, mi parli della tua concezione del tempo, la seconda cosa più preziosa che abbiamo? Perché la prima quale sarebbe?
La salute. L’hai letto nel libro. Quando ebbi la febbre, cosa fai: pensi e pensi ancora, pensi alla salute, è automatico, se stai male e hai 39-40 di febbre.
E la seconda, l’ho capito dopo un po’ : è il tempo perché non è illimitato e non sappiamo quando si fermerà.
La maggior parte della gente non lo valuta, specialmente quando si è giovani: chi pensa da giovane all’importanza del tempo? È un fattore che è fuori portata, non ci si pensa, e invece, man mano che si va avanti, ci si rende conto dell’importanza del tempo, perché man mano che la scorta diminuisce ne rimane sempre di meno, e quindi cerchi di riempirlo al top, al meglio, per non spendere invano il tempo che resta.
Senti, Ferrara e il mare, ti ritieni uomo di mare o uomo di terra?
Sono un uomo di terra.
Wow, perché?
Perché il mare mi ha dato tutto, mi ha reso consapevole di che cosa è il pianeta Rodolfo, cosa che io non avrei scoperto se fossi rimasto a fare la vita da ordinary people, assolutamente. Mi ha dato tantissimo, sarò sempre grato e riconoscente al mare. Però il pensiero conclusivo della mia risposta, che ti ha meravigliato, mi è dato da un paragone, e cioè, le motivazioni possono essere varie. Te ne dò un paio.
Durante il mio viaggio ho conosciuto italiani emigrati e esuli in tutto il mondo e tutti quanti, appena sapevano che c’era un italiano in un’isola sperduta, in un posto dove gli italiani capitano “una tantum”, venivano da me e mi chiedevano dell’Italia. E finivano il discorso dicendo: «io spero di mettere le mie spoglie in Italia».
Ma com’è? Mi dicevo, perchè sei così legato all’Italia? E poi la risposta mi è venuta col tempo: perché noi italiani, latini, mediterranei, siamo molto legati alla nostra terra.
Noi lo siamo in maniera atavica per mentalità, per cultura, per genoma forse, al contrario dei paesi nordici, anglosassoni, che fanno del movimento il loro motivo di esistenza.
La chiamano “movimento esistenziale” mi sembra, e se non ricordo male c’è anche un termine tecnico, per cui il motivo della loro vita è muoversi.
Invece noi italiani siamo legati all’orto, al tetto, alla casa, siamo legati alla nostra patria. E io sono così, mi sono accorto che anch’io, pur dovendo tutto al mare, non vorrei morire in mare.
Io ricordo che quando allievo Ufficiale sull’Anna C arrivavamo in porto in Argentina, venivano gli italiani di Buenos Aires a vedere la nave che arrivava, per poi parlare italiano e per sentire la novità sull’Italia direttamente dagli italiani, anche se non avevano nessuno parente che sbarcava.
Era tutto più facile. Con questi esuli si parlava a mente aperta come se fossimo amici dall’infanzia. Perché ci legava questo concetto della patria comune.
E quando hai iniziato a sentire il richiamo del mare?
È stato un caso. Da giovane io ero cagionevole di salute, e il dottore disse che dovevo andare al mare per respirare l’aria salso-bromo-iodica. I miei allora mi portarono a Cesena, il mare romagnolo, perché i miei sono romagnoli, mentre io sono nato a Ferrara ma concepito in Romagna.
Là vedevo alla mattina un paio di ragazzi che armavano una deriva sulla spiaggia, ed io li osservavo incuriosito; li osservavo come se stessero montando una costruzione molto più impegnativa di una barca a vela, e poi nella brezza pomeridiana, nello scirocco pomeridiano, la spingevano in acqua e si involavano come se fosse un film.
La prima volta io rimasi allibito; il giorno la scena si ripetè, ed io mi facevo sempre trovare lì appresso. E così per due o tre giorni: io mi avvicinavo a loro, guardavo le manovre che facevano, e cercavo di studiarli, guardando con due occhi spalancati. Spingevano la barca in acqua e in un batter d’occhio erano all’orizzonte, spinti da che cosa? Senza motorino, senza niente.
Finché un giorno, dopo altri tre o quattro giorni, ne arrivò uno solo, perché l’altro era malato. Io ero sempre lì e mi ha chiesto se volevo salire con lui. Benedetta malattia.
E allora quella è stata la tua prima esperienza?
Sì, avevo quattordici o quindici anni.
E che stimoli ti ha dato? Che sensazioni ti ha dato?
E’ stato un imprinting. Dopo ho continuato a coltivarle in tutti i modi. Erano i primi tempi della nascita del diporto in Italia, ma forse non c’era ancora: dico forse perché parlo degli anni sessanta, sessantacinque, ed era ancora sconosciuto.
Ho cominciato con le derive da spiaggia, e poi mi sono preso un piccolo cabinato.
Allora lavoravo in banca, partivo il venerdì pomeriggio, finito di lavorare, e facevo i week-end alle foci del Po. Andavo dentro al faro di Gorino e buttavo l’ancora. Stavo lì un giorno o due e la domenica ritornavo.
Non avevo il motorino fuori bordo, e poiché non c’era mai vento alla fine andavo a pagaia, e spesso ritornavo la sera ed i miei genitori erano preoccupati e mi chiedevano dove fossi stato.
Mi ricordo un aneddoto. Avevo una barca a deriva mobile, un Limit, costruita da Cadei sul lago D’Iseo. Un pomeriggio entro dentro al faro di Gorino, sul Po della gnocca, butto l’ancora e la cima mi rimane in mano. Boh, non ci faccio caso e lego la cima.
La mattina, dopo aver dormito benissimo (mai dormito così bene), mi sveglio, esco in pozzetto, mi stiro, e vedo alcuni pescatori che mi guardano e ridono…ridono. Mi guardo attorno e realizzo perché ridono: non c’è acqua, vedo l’ancora a tre metri appoggiata sulla melma, ma non c’era l’acqua. Mi sono disperato, che cosa faccio adesso? La barca era in secca per la bassa marea. Poi ho visto l’acqua che arrivava adagio adagio finchè la barca si è messa a galleggiare e sono scappato via…. e ho cominciato a imparare.
Da imparare ad andare in barca a iniziare a fare lo skipper: pensavi che quella poi sarebbe stata per un pezzo la tua vita?
Sì, c’è stato un pensiero del genere, infatti inizialmente ho cominciato nel 1980 con una società di charter. Mi ricordo come se fossi ieri quando mi affidarono un ketch di 14 metri, per portare degli abbienti milanesi in Croazia. Io ero già stato in Croazia tante volte da solo o con amici, ma con la barca mia ed ebbi i primi scrupoli, i primi timori. Mi chiesi:”Ma chi sei tu, Rodolfo, che pensi di avere l’esperienza per prenderti la responsabilità di portare una barca così grande e quattro persone in Croazia? Ma te la senti? Sei sicuro di quello che fai?
Non ho dormito tutta la notte, poi alla mattina mi son detto: «Ti sei preparato bene, sei tranquillo, sei sicuro, ci sei già stato tante volte, è vero che hai la responsabilità professionale di quattro vite, però sei preparato» ……sono partito tranquillo ed è stato meraviglioso.
E l’arrivo di Freccia?
Freccia è arrivata molto avanti, è arrivata quando io avevo deciso di partire, quando si sono verificati tutti i fattori che mi permettevano di avere la discrezionalità di farlo, non come tanti che avevano il desiderio di partire e poi non sono partiti… anche se il sogno c’è stato sempre dai 15 anni.
Mi ricordo Gianni Morandi che cantava: “uno su mille ce la fa”: io invece mi ero già preparato da tempo, da quando questo sogno era ancora nel limbo.
Oltre che fare pratica, regate, navigazioni, io studiavo, ho letto i libri; ce ne sono due o tre che mi hanno dato l’imprinting, oltre a “Sailing Along a Round the World” del 1895 del primo circumnavigatore, Slocum; un altro che mi ha dato l’imprinting è stato Thor Heyerdahl, dopo aver letto che lui nel 1946, per fare la sua tesi di Antropologia, ha messo un dito a occhi chiusi sulla carta del Pacifico su Fatu Hiva, ed è andato a vivere là per sei mesi con la compagna. Uno così io dovevo conoscerlo, dovevo vederlo e con Freccia all’inizio ho seguito la sua strada, la sua rotta , perché sono andato a Fatu Hiva, e ci sono anche ritornato.
Infine c’è Wolfgang Hausner, con “Taboo”, lettura molto interessante: è stato un precursore anche lui, dopo Joshua Slocum e dopo Thor Heyerdahl.
E quindi da sempre ti eri preparato per il Giro del Mondo, ma perché hai deciso di prendere Freccia?
Ho deciso di iniziare con molta determinazione la preparazione mia e di Freccia: sono andato a comprarla a Santa Margherita di Caorle, una barca particolare, perché è una barca in alluminio, a spigolo, a deriva mobile, 32 piedi; io ormai mi ero innamorato di queste barche, perché anche quelle che ho avuto in precedenza erano tutte a deriva mobile.
E ho visto che avevano delle possibilità, delle capacità che secondo me erano superiori alle caratteristiche di una barca a chiglia fissa: ma questo è un giudizio estremamente personalizzato.
Sai, credo che non ci siano regole, ognuno lo fa con quello che ha in mano e deve imparare a dare con quello che ha in mano, se no è finita.
Freccia aveva un merito immenso, anzi ne aveva tanti, ma ne aveva uno in particolare che è l’andatura di poppa, e siccome in giro del mondo nei Tropici si fa l’80% con vento in poppa era l’ideale per me. Poi ne ha altre su cui non voglio soffermarmi perché andiamo sul tecnicismo. Ho cominciato a prepararla in un paio d’anni per fare in modo che avesse tutte le attrezzature per l’oceano L’ho attrezzata di persona con pilota a vento, i gradini sull’albero, l’SSB, il solare, l’eolico e altre attrezzature indispensabili per renderla autonomo.
In Mediterraneo ci sono porti e marina ogni 20/30 miglia per sopperire a tutte le avarie.
Quindi diciamo che da quando tu hai iniziato a lavorare in mare a quando sei partito con Freccia sono passati parecchi anni, 25 anni, durante i quali hai sempre fatto lo skipper ed hai sempre lavorato in mare?
Sì, un po’ per conto mio, un po’ per conto di altri, un po’ per trasferimenti.
Ma il fatto di fare il giro del mondo da dove nasce? Perché un conto è navigare, un conto è fare lo skipper e fare charter, un altro conto è fare il giro del mondo.
E’ un imprinting anche quello, cresciuto leggendo i libri di Joshua Slocum, Taboo, Moitessier, ed il giro del mondo per me era diventato un desiderio che volevo realizzare.
Mi ritrovo in quello che dici, io mi sono imbarcato a vent’anni perché avendo fatto il nautico dovevo navigare, ma fin dall’inizio anche da piccolo io ho sempre avuto in mente il giro del mondo, non so perché, ma l’ho sempre avuto.
Senti un po’, l’importanza degli amici durante il viaggio, mi sembra che fin dai primi bordi in Mediterraneo tu sia stato circondato da amici.
Sbagliato, io avevo una lista lunghissima di amici che mi avevano garantito che sarebbero venuti nel mio viaggio a fare delle tratte o altro, ma quando è stato il momento di partire ….. nessuno!
Ti giuro, mi sono abbattuto, demoralizzato, ma ho una fortuna immensa: sto bene anche da solo; io amo la compagnia, quindi volevo delle persone che venissero con me e usufruissero addirittura di questa opportunità per provare avventure, emozioni, e invece o per motivi di famiglia o per salute o insomma per impegni vari, nessuno è venuto.
Mi hanno raggiunto solo un paio di amici in Egeo, perché prima di partire sono andato in Peloponneso, dopodiché ho attraversato il Mediterraneo da solo.
È stato pesante dal punto di vista psichico, perché mi sono trovato da solo quando invece pensavo di avere la compagnia di amici, e poi per la difficoltà del Mediterraneo. Stare allerta, fare watching in continuazione, guai improvvisi, vento mutevole, ho avuto anche delle rogne giù nel sud della Sardegna, dove c’è il campo di tiro militare.
Io sapevo di questo fatto e stavo sempre acceso sul canale 16 per sentire gli avvisi. Forse dormivo, non ho mai sentito chiamate e comunque non so come sia successo, sta di fatto che a un certo punto mi sveglia il rumore di un elicottero a 10 metri sopra di me, e un militare con mitra imbracciato mi minaccia di andare in porto, e infatti poco dopo vedo una barca che arriva sparata con un Rambo in piedi a prua a braccia conserte. Mi arriva a 5 metri e fra me e me penso: «adesso voglio vedere come fa a non essere catapultato in acqua». Infatti la barca smette di accelerare, il motoscafo si abbassa di prua e lui per poco vola in acqua! Ricompostosi mi fa: «seguici e vieni a Porto Pino …devi parlare con il colonnello e la passerai brutta…bene vi seguo» dico io.
Loro ripartono subito, ma io non riesco a fare la loro velocità; allora loro tolgono un motore, tolgono anche il secondo, ma scarburano perchè non potevano tenere una velocità di 4-5 nodi, finché a un certo punto si stancano e vanno via! E io sgattaiolo…
Mi hai fatto sorridere, perché quando ero terzo ufficiale, imbarcato sul Cesana e tornavo a Genova dal Sudamerica; davanti a Tolone c’è una base di tiro e io non avevo guardato bene gli orari delle esercitazioni. Noi a bordo tenevamo una rotta a 5/6 miglia dalla costa, perché il comandante non voleva che si scendesse sotto le 3 miglia, e un bel momento vedo a distanza di solo 2-300 metri alcuni sbuffi che scendono in acqua, e realizzo subito che stavano, non dico sparandoci addosso, ma quasi: eravamo noi entrati nel campo di tiro dei militari. Ho guardato la carta, ho visto dove eravamo, e immediatamente ho virato di 90 gradi a sud. Ecco, per questo motivo mi hai fatto sorridere.
Quando poi hai superato le colonne d’Ercole come comunicavi? Avevi l’SSB a bordo?
Sì, ti dissi che mi ero preparato, ed infatti avevo predisposto la barca con tutte le caratteristiche necessarie al giro del mondo, gli accessori che erano indispensabili per navigare in autonomia e ho preparato anche me stesso.
Premetto che avevo già il brevetto di subacqueo, ero discreto nuotatore, sufficientemente ginnico e avevo la patente nautica; poi ho dato anche la patente da radio amatore per imparare ad usare la radio di bordo, perchè io non conoscevo questa apparecchiatura, e poi anche perché con il Pactor si poteva usufruire dell’applicazione di Airmail e Winlink gratuitamente per ricevere posta e messaggi.
Il Pactor, lo usavo anch’io, era un’attività romantica, ormai sostituita da Immarsat e Starlink
Sì, è una cosa stupenda, ma ti dirò di più, che allora non c’era Starlink, chiaramente, e allora con l’SSB c’era un appuntamento rituale con il DJ quotidiano. C’era ancora Zini, era un amico, e sono andato tante volte a salutarlo a casa sua prima di partire, per conoscerlo, e poi anche durante il viaggio. Ogni volta che tornavo andavo a salutarlo, mentre Grande Laguna l’ho conosciuto solo per messaggi online, e non l’ho mai visto di persona. Winlink è stata una benedizione perché ti permetteva di mandare e ricevere posta gratuitamente da ogni luogo dell’Oceano, potevi mandare e ricevere bollettini meteo, carte sinottiche chiedere informazioni mediche.
Era un servizio gratuito per i radioamatori, gestito dagli americani, ed io li ho ringraziati; inoltre chi non era radioamatore poteva usufruirne pagando 200 dollari all’anno. Tieni presente però che, fuori di questo, l’ho fatto anche per conoscere la radio, ed è stato determinante.
Senti, tu hai conosciuto tantissimi navigatori da che cosa pensi siano stati spinti a partire?
Ti rispondo in maniera molto sintetica. Quando ci si trovava nelle varie isole a fare il barbecue in una baia, dieci barche con dieci equipaggi diversi, con dieci lingue diverse, ci si capiva sempre, ma le domande che ci si ponevano erano tre: perché sei partito? che ancoraggio hai? e hai armi a bordo? Queste erano le tre domande che venivano fuori subito e i motivi per cui un velista parte per il giro del mondo sono infiniti… io sono partito perché avevo questo sogno da realizzare.
Non pensi che il sogno forse sia effettivamente un massimo comun divisore?
Sì, senza dubbio o perlomeno il principale.
Anche Alfredo Giacon mi ha parlato del sogno, ma molti navigatori che ho intervistato parlano del sogno non come un desiderio, ma come una spinta, una spinta che ti porta a conoscere; il sogno è una curiosità, e con il giro del mondo esaurisci una curiosità.
Sì, senza dubbio la curiosità, certo.
Fra i personaggi e navigatori che hai trovato hai mantenuto i contatti con qualcuno?
Sì, i primi anni ho mantenuto i contatti sempre tramite airmail, perché puoi usarlo anche con internet da terra, ma poi, dopo dieci anni, li ho persi.
Nel tuo libro parli di 30 anni per un sogno: me ne vuoi parlare?
Sono 30 anni che direttamente o indirettamente, consciamente o inconsciamente, io ho vissuto per realizzare questo sogno. Avevo anche altre attività a parte la moglie, altri hobby secondari, però il fil rouge, la traccia indispensabile era questo sogno che gravitava sempre nel pianeta Rodolfo. Quindi 30 anni, 30 anni di inconscia preparazione.
Le colonne d’Ercole: mi racconti le sensazioni al loro passaggio e l’entrata in Atlantico con l’Aliseo? Io ho dei ricordi emozionanti solo a pensarci.
La sensazione che ho avuto? mi sono immedesimato nei primi marinai che passavano da lì ai tempi di Colombo, e sono sicuro di aver avuto le loro stesse emozioni, cioè di passare da un mare conosciuto, che è il Mediterraneo, ad un mare sconosciuto con tutte le incognite che c’erano allora.
Ma anche se erano passati 500 anni, io avevo ugualmente le stesse incognite, quindi mi sono paragonato a loro con gli stesse timori, paure: torno, non torno, e mi sono reso conto di essere piccolissimo, piccolissimo di fronte a un’immensità che avrebbe potuto farmi volare via con un soffio-..
Una barca di 32 piedi, 10 metri…. e lì mi sono accorto che Freccia era il mio guscio sul quale dovevo contare oltre a me stesso, e mi sono accorto che era la mia salvezza.
Come ti regolavi con il sonno?
Sono tecniche particolari che si applicano proprio in automatico, dopo un po’ di tempo, di fatto si instaurano dei mini-turni, per cui sia di giorno che di notte io dormivo e mi riposavo, questo indifferentemente dal fatto della luce, del sole, del giorno o della notte.
Mi ero studiato l’orario circadiano. L’hai sentito nominare? È l’orario biologico del dormiveglia. E quindi io mi ero chiesto come si fa, anche perchè avevo letto sui libri come fanno i velisti nelle regate attorno al mondo, e mi dicevano che dormivano 20 minuti.
A questo riguardo ho pubblicato su “Rotte di tutto il mondo” un brano di Nannini, il navigatore che ha organizzato la Global solo Challenge. Ha scritto molti articoli interessanti fra i quali anche un corso di meteorologia.
Sono d’accordissimo, li ho letti tutti. L’aveva studiato per primo Leonardo.
Nannini: lui dormiva 20 minuti e si svegliava, controllo a 360 gradi, e se tutto era posto ritornava a dormire, e così via. Alla fine delle 24 ore aveva dormito 8 ore.
All’inizio io avevo paura di non svegliarmi dopo 20 minuti, specie quando navigavo in Mediterraneo; il Mediterraneo dal punto di vista del watching, dell’alert, è più problematico perché è piccolo, perché è pieno di pescherecci, di navi, di barche varie, per cui il watching deve essere molto preciso.
Io dormivo sempre in quadrato, e all’inizio mettevo l’alert ogni 20 minuti… che mi svegliava. Poi, anziché mettere la sveglia, ho cambiato sistema, perché avevo letto che se metti una mano sotto il sedere dopo 20 minuti vengono le formiche alla mano. Ed infatti è vero!
Dopo 20 minuti ho constatato che mi si formicolava la mano: allora mi svegliavo, giro d’orizzonte, guardavo le luci, tutto a posto, e tornavo a dormire.
Dopo diventa un automatismo, non hai più bisogno della sveglia, non è più necessaria la mano sotto le chiappe, ed è una cosa normale.
C’è da dire una cosa. Che quei 20 minuti si dorme al 90% perché il 10% si è in allerta; è come se fossi in stand-by con il radar, cioè il radar è in stand-by ma ogni 20 minuti entra in funzione.
Ti accorgi se cambia il vento, se cambia l’andatura della barca, se cambia l’onda. Perché anche questo diventa un affiatamento con l’elemento in cui tu ti trovi e la tua barca
È un adattamento, come quando vai in montagna devi acclimatarti alla quota, così nel mare devi adattarti, acclimatarti all’elemento in cui sei. E quello che mi ha stupito è che è vero! Tu sei un tutt’uno con il tuo mezzo e ti rendi conto di questi cambiamenti.
Poi io avevo anche degli altri allarmi. Avevo l’eolico, che quando il vento aumentava oltre i 15-20 nodi, entrava in effetto turbina ed il rumore ti svegliava. Comunque quello che mi ha sorpreso è che questo adattamento avviene in automatico dopo un po’ di tempo.
Quando sono passato da Gibilterra continuavo a fare questo controllo, e a un certo punto mi son detto: «ma che cosa fai, ci sei solo tu qui, è inutile che ti svegli ogni 20 minuti». E allora mi sono fidato… Mi sono lasciato andare, chiaramente mi svegliavo quando avvertivo qualcosa, oppure perché mi ero sufficientemente riposato.
Beh, non ci crederai, ho cominciato a dormire a piacere quando ero sicuro di essere fuori dalle rotte commerciali.
La lentezza di Freccia ha rotto il muro dello spazio-tempo.
Sì, mi ricordo, questo si è verificato specialmente in Atlantico nella mia prima traversata. Era chiaramente lenta anche perché Freccia, carica com’era, faceva una media di 100 miglia al giorno. Ciononostante la mia vita era così piena di esperienze e sensazioni nelle 24 ore che vivevo, che sia il concetto di distanza che il concetto di tempo avevano perso significato: e per me è diventato ininfluente il binomio spazio-tempo.
Ho letto che eri molto attento ad organizzarti la giornata: è sempre stato così?
In misura minore; non volevo rendermi apatico in navigazione e mi davo un ordine di incombenze per far sì che la mia testa fosse sempre occupata. Così mi organizzavo la giornata: la fase più importante era la colazione mattutina, una colazione che per me era basilare, poi controllavo la barca, il punto nave, le miglia, aspettavo con cura il momento della chiamata del DJ nell’orario fisso, e dopo aspettavo il tramonto, e con il tramonto la fantomatica linea azzurra, o il raggio verde, che io non ho mai visto…
Hai imparato da solo a usare il sestante?
Sì, sono un autodidatta anche in questo così come ho imparato ad andare in barca a vela da solo. Non sono mai andato ad una scuola, ho fatto l’esame della patente nautica tre volte da privatista perché le prime due volte mi hanno bocciato e la terza volta finalmente mi hanno promosso. Perché? per disperazione? No! per anzianità? Neanche!
Te lo posso raccontare tanto non faccio i nomi perché merita… dunque ti racconto: le altre due volte non mi hanno promosso perché ero l’unico privatista su 40-50, ma qualcuno doveva pure essere bocciato!
La terza volta ho cambiato capitaneria. A Chioggia eravamo in cinque a bordo di un Comet 910 di proprietà di uno degli esaminati. C’era un Commodoro con berretto e bottoni d’oro che ci faceva da esaminatore: dovevamo girare ad una boa vicinissima alla nave Granaio, la boa probabilmente era dell’ancora, e il timoniere dice: «pronti a virare», e allora noi ci prepariamo tutti alla virata … eravamo lì per avere la patente, ma sapevano tutti navigare molto meglio di uno che già la patente la avesse. Eravamo tutti regatanti, e tutti cazziamo a ferro la randa e specialmente il fiocco per prendere velocità per virare. Quando il Commodoro ha visto fare così ha detto «no non si fa così perché il fiocco fa poggiare la barca, non va bene, adesso vi faccio vedere io» ed ha preso la barra del timone, si è allontanato, ha poi puntato la boa, e quando è stato a 5 metri dal punto di virata, ha dato il comando «mollare il fiocco»… C’era il proprietario della barca dietro di lui e io l’ho visto spalancare gli occhi… Chiaramente senza più abbrivio la barca ha poggiato molto e ha sculettato con il giardinetto di destra contro la barca Granaio, e per poco il Commodoro sbatteva la testa contro il winch nella mano del proprietario! Terminata immediatamente la lezione senza esaminare i restanti! Tutti a casa, tutti promossi, e se c’è qualcuno che mi legge forse si ricorderà l’avvenimento negli anni settanta… eravamo in cinque…
C’è un navigatore che ti ha ispirato?
I nomi che ti ho detto prima Slocum, Thor Heyerdahl, Wolfgang Hausner, Moitessier.
Mi parli dell’importanza dell’ozio: è proprio un vizio o piuttosto un apprezzabile lungo momento di piacere?
Nell’accezione comune è una cosa negativa, dal latino negotium, composto di nec otium, ossia “non ozio”, ma nell’antichità l’ozio era considerato un valore positivo perché significava “non far niente” e quindi avere il tempo per pensare e ragionare con la propria testa come i filosofi. Il negotium era “l’occuparsi delle proprie necessità e dei propri affari” e distoglieva dal libero pensiero, effetto negativo per il tiranno. Per me l’ozio dovrebbe essere effettuato almeno di 5 minuti al giorno.
Parlami dei tre Oceani. Come li ricordi? sono tutti uguali? Che sensazioni ti hanno lasciato o trasmesso? so che ascoltavi musica: a quale l’accoppieresti?
No, non sono uguali.
Come onde, come forma delle onde e del meteo, perlomeno i primi due sono molto simili. L’indiano è un po’ diverso. C’è il Monsone al posto dell’Aliseo.
Per cui la diversità di definizione è dovuta a motivi estremamente soggettivi.
L’oceano Atlantico è stato il primo, è l’iniziazione. È stato l’oceano del Battesimo.
Quindi è un ricordo indelebile che ti dà un marchio nel cuore. Lo potrei paragonare come musica all’Eloïse.
Il Pacifico è un déjà vu, perché non è più così emozionante come l’Atlantico.
Però ha una cosa in più. L’esotismo. L’esotismo del Pacifico.
Io non sapevo neanche cosa volesse dire esotico. Esotico semplicemente vuol dire sconosciuto. Insomma, l’Oceano è sconosciuto, per cui c’è quest’aurea di mistero.
E con tutto quello che avevo letto, degli atolli, delle isole, di questo oceano sterminato, che è tre volte l’Atlantico, lo equiparerei a Wish You were here.
L’indiano l’ho patito. Sì. Devo dire che io non l’ho fatto tutto, nel senso che non l’ho attraversato per longitudine fino in Sudafrica. Ho fatto la rotta Nord per salire verso il Mar Rosso. Però l’ho patito.
Prima per diversità dello stato del mare. Il colore dell’acqua diversa. Non era il blu dell’Atlantico e del Pacifico.
Poi l’ho visto sporco. Non riuscivo a identificare se era una questione organica o se erano i risciacqui delle barche. E poi purtroppo ho avuto la prima esperienza bruttissima di mancanza di vento.
Io ho sempre seguito la Bibbia di Jimmy Cornell, quindi partivo sempre seguendo i suoi consigli per seguire la stagionalità dei venti. Sono stato 12 giorni praticamente fermo.
Facevo 10 miglia al giorno, dovute forse alla corrente, delle volte anche meno.
Avevo un compagno lì, un caro amico. Ci siamo messi a razionare l’acqua e il gasolio: non potevo andare a motore, ero in mezzo all’oceano!
E sentivo nella ruota in radio che anche gli altri erano nella medesima situazione. Per cui l’ho patito, l’ho sofferto.
E la Polinesia e le Marchesi?
Ho un rimpianto. Ho fatto purtroppo solo una stagione e mezza in Polinesia. Ma ho avuto la fortuna di atterrare a Fatu Hiva, che è una fiaba! Rimane stampato nella mente e nel cuore l’arrivo all’isola. E le Tuamotu, di cui avevo tanto letto. Come ti dicevo, ho seguito il percorso di Thor Heyerdahl dove ho avuto la fortuna di incontrare un esule francese, più o meno della mia età, che viveva lì da sempre, perché aveva abdicato la vita sociale per andare a nascondersi in queste isole. Si chiamava Gerard Bédé, ma quasi nessuno lo nomina. Si è offerto di farmi da cicerone in quelle isole, in francese. E io l’ho accettato. Sono stato in una laguna dove lui aveva due o tre motu con dei faré. Sono stato ospite suo per un mese e mi ha fatto imparare la vita polinesiana. Adesso i polinesiani hanno perso le loro abitudini, le loro tradizioni, e lui era molto dispiaciuto di questo, perché specialmente i giovani hanno preso la coltivazione dei noni, la coltivazione delle perle. Oppure se ne vanno a Tahiti a lavorare.
Ho preso un catamarano, a noleggio, per tre settimane, nel 2019. A Ranjiroa fanno 18.000 bottiglie. E fanno tre raccolti in un anno. Per cui fanno il primo, lo mettono al freddo. Fanno il secondo, poi il terzo, li mescolano e fanno il vino.
Mentre fanno sempre il rum.
Beh, il rum è una merce di scambio. Quando sono arrivato a Panama avevo comperato tante bottiglie di rum da barattare, e Gerard si era molto dispiaciuto perché purtroppo aveva già capito che il progresso avrebbe traviato la mentalità e i costumi degli isolani. Che non conoscevano addirittura più i pesci buoni da mangiare per evitare la ciguatera.
E lui invece mi ha insegnato a cacciare i pesci buoni che poi mangiavano insieme. Faceva delle apnee lunghissime, anch’ io mi arrangiavo, ma lo invidiavo, anche se là non c’era bisogno di apneare molto, perché i pesci ti venivano quasi a toccare. C’erano le cernie che si facevano accarezzare, c’erano le mante lì vicino e gli squali.
Degli squali ti voglio raccontare l’aneddoto. Lui mi diceva, “Ne bouge pas!”, non muoverti e stenditi, perché tu steso sei lungo come loro, e gli squali di laguna sono più piccoli degli squali di mare aperto. Solo che all’inizio, non è stato facile. Io scendevo giù dal gommone. Quando vedevo arrivare lo squalo che mi si avvicinava a 10 metri io saltavo a bordo del gommone. Poi andavo di nuovo giù. Lo squalo una seconda volta si avvicinava a 5 metri e io su di nuovo nel gommone.
E così per mezz’ora. Finché a un certo punto lo squalo mi arrivava a 2-3 metri e deviava lui. E così via anche se continuavo a guardarmi dietro ogni tanto. E poi, dopo, rimangono i principi che sai anche tu, che se colpisci con la fiocina un pesce, entro 60 secondi devi metterlo sul gommone perché loro arrivano.
Raccontami come hai imparato a imparare.
Si impara pagando di tasca tua e con l’esperienza. Solo dagli errori che tu fai o dagli errori che fanno gli altri se hai l’umiltà di guardarli, di intervistarli, di apprenderli.
Hai scritto che ti senti ospite in questo mondo. A cosa ti riferisci? Come vivi adesso conoscendo la reale situazione in cui ci troviamo?
E’una situazione pesante, Mario. Sono pessimista. Secondo me l’uomo moderno ha conservato lo spirito beduino dei tempi della preistoria, quando per vivere doveva uccidere gli animali, o gli altri uomini che volevano sopraffarlo per mangiarli, perché anche allora c’era il cannibalismo. E ti dirò una cosa, una mia teoria di cui sono convinto, e che ho imparato nel mio viaggio.
Quando dopo miglia e centinaia di miglia, arrivavi in una baia dove c’era tanto spazio, chissà perché tu andavi sempre ad ancorarti vicino all’unica altra barca che c’era. Perché? Perché semplicemente siamo in pochi in Oceano, quindi se tu hai bisogno di aiuto vai a chiedere aiuto a quell’unica barca che c’è.
Oggi siamo in troppi. Ci strusciamo fra di noi, ci diamo fastidio.
La vicinanza sociale è esagerata, è negativa; pensa che ho imparato a capire che avevo smesso di essere in oceano quando sono entrato in Mediterraneo: arrivo in un’isola greca e vado a scambiare dei libri perché li avevo letti tutti; io durante il giro del mondo usavo Lycia di Penati come barca biblioteca, perchè ci siamo spesso incontrati, ed ogni volta facevo i conti per essere in porto quando lui sarebbe arrivato per il cambio di equipaggio, e mi facevo trovare là almeno un giorno prima perché facevo il cambio dei libri.
All’arrivo a Kastelorizo, vado a cambiare i libri e mi avvicino ad un’altra barca grande e porto con me due o tre libri… «facciamo scambio di libri?» l’armatore mi ha risposto in malo modo «ma che c…o vuoi?»… io ho capito che non ero più in Oceano.
In Oceano sarebbe stato normalissimo lo scambio di libri, aiutarsi, ma lui non voleva nemmeno chiacchierare! Una delusione, per me!
È una mia teoria da molti anni: quando all’inizio del secolo scorso il pianeta aveva 2 miliardi e mezzo di abitanti c’era spazio per tutti; poi la guerra ne ha anche “buttati via” un po’, e adesso siamo 7 miliardi e mezzo…
Non c’è più spazio!
Esatto, sto dicendo la stessa cosa ma lo voglio dire per corroborare il tuo discorso: quando io sono nato nel dopo guerra eravamo 2 miliardi e mezzo perché la guerra aveva decimato un po’ di persone; pochi anni fa il calcolo degli abitanti della terra era 8 miliardi… in 70 anni più che triplicato! Come fa la terra a nutrirci? Tant’è vero che pochi anni fa c’è stato il giorno del G-Day, e gli scienziati hanno stabilito che la terra non aveva più cibo per nutrire il mondo.
Come chiameresti la sindrome di chi parla del mondo della vela senza aver mai navigato? ce ne sono vero?
Dei ciarlatani, degli affabulatori seriali. Ma non solo nel mondo nautico un po’ dappertutto!
Pensa che quando succedono purtroppo delle tragedie, specialmente in mare, e leggo degli articoli di cronisti, di redattori, di giornalisti, mi vergogno.
A parte il fatto che sbagliano termini tecnici, parlano di cose che magari non conoscono, e non si rendono conto di quello che può succedere in mare perché non conoscono l’ambiente.
Ti porto l’esempio di quello che è potuto succedere a Rimini anni fa all’amico di Paolo Liberati ti ricordi? Io non mi permetto di giudicare perché non ero lì sul posto come attore; posso fare delle ipotesi, avere le mie idee, ma me le tengo per me perché non me la sento di giudicare.
Errori che si fanno; si pensa di saper navigare poi invece…
Sì, perché le variabili sono infinite, e non finisci mai di imparare: sei in un ambiente che non è il tuo; succede anche sulla strada, succede in montagna, succede dappertutto, ma in montagna e in acqua l’ambiente non è il nostro.
Senti: quali sono le caratteristiche che deve avere un navigatore.
Amare il mare, tanta passione, tanta esperienza e tante miglia.
E le tue caratteristiche, che ti hanno consentito di arrivare ad essere quello che sei oggi?
Ho cercato di seguire la risposta che ti ho dato in precedenza.
Ti senti cambiato rispetto quando hai scritto il libro?
Sì, sono cambiato, ma il cambiamento principale è stato dopo che ho fatto il mio viaggio … ho cambiato il segno zodiacale… il libro l’ho scritto nel 2008… in 5 mesi notturni, quindi sono passati già 17 anni. Sì, sento di essere cambiato, ma hanno influito chiaramente l’età, il tempo; la sedazione da progresso ci sta condizionando in maniera pazzesca, pesante, e ti ho risposto anche prima, quando ti ho detto che la vedo male: sono pessimista sul futuro.
Cosa ti ha spinto a scrivere “Il Mediterraneo lasciato a poppa”?
Antonio Penati! Egli non aveva ancora avviato la parte editoriale del Frangente, però si era reso conto che i libri che arrivavano in Italia erano tutte traduzioni dall’inglese o dal francese.
Ha sempre pensato che anche noi navigatori italiani siamo in tanti, e dobbiamo scrivere anche noi, e ogni volta che mi vedeva insisteva: «scrivi, scrivi».
Io non sono uno scrittore, e quando mi chiedevano «ma cosa sei tu?» io dicevo, «sono un navigatore» perché amavo questo termine e sapevo di esserlo.
Poi quando ho passato Suez e appena sono entrato nel mare nostrum, nel mare Mediterraneo, c’è stata un’istintiva esplosione viscerale, addominale, ed ho capito che il sogno era praticamente realizzato, anche se nella mia mente il sogno si sarebbe concluso con l’arrivo a Castel Rosso (Kastellorizo) .
Dopo un po’ ci penso e realizzo che effettivamente mi mancava qualcosa, sentivo che la soddisfazione non era totale come pensavo avrebbe dovuto essere, e ho capito che dovevo scrivere, dovevo buttare giù quello che avevo passato, e quando sono stato a casa ho preso il mio logbook e per cinque mesi, di notte, ho scritto il libro.
L’ho dato a Antonio nel novembre del 2008 ed Il Frangente l’ha pubblicato nel 2009.
Hai rimpianti?
Ah, uno te l’ho detto cioè quello di non essere rimasto un po’ più lungo in Polinesia; l’altro purtroppo di non aver avuto più amici che avrebbero potuto usufruire di un’esperienza unica.
E il dolore più grande che hai provato?
È la risposta che ti ho dato adesso, non aver potuto accompagnare più persone ad usufruire di questa esperienza.
E il ricordo più bello?
…a terra quando mi sono licenziato dalla banca; e in barca… di essere cambiato.
La decisione più saggia che hai preso nella tua vita?
Licenziarmi dalla banca, e invece in mare rinunciare a visitare i luoghi che avevo messo nella lista, nella lista nera, e che non ho potuto fare perché primo non si può fare tutto, e secondo perché in certe occasioni avrei dovuto avere necessità di un watching a prua che mi aiutasse, specialmente nelle isole Louisiades; mi aveva affascinato questo termine così esotico delle Louisiades e io volevo andarle a vedere, lo volevo tutti i costi, ma poi l’amico che doveva raggiungermi non è venuto, e io sono stato costretto a malincuore a non andare per non rischiare più di quello che avrei potuto.
Hai mai avuto paura?
Sai che ti direi quasi di no? Ho temuto, ho temuto in due occasioni. Prima per la tempesta che ho preso quando da Gibilterra sono andato alle Canarie; ho guardato il meteo, mi dava 5 giorni di buono e io sono partito; ma per fare 700 miglia a Freccia servivano 7 giorni.
Dopo 5 giorni è arrivata la tempesta più brutta della mia vita.
Lì ho la fortuna di avere un amico che mi aveva accompagnato, un gran marinaio, veramente un gran marinaio che ho trovato all’ultimo momento e che mi ha aiutato notevolmente: mancavano 200 miglia alle Canarie… siamo tornati indietro 300 miglia perché l’unica cosa da fare era mettersi in poppa.
Vento di Libeccio che spingeva da sud…
Che poi non è Libeccio perché ti trovi davanti al Marocco…
Si erano formate onde che venivano dal Sud America, hanno attraversato l’oceano e con il fetch sono diventate delle montagne… all’alba dopo due giorni di navigazione, dove ho sputato l’anima e il sangue, e devo ringraziare il mio amico che era con me e che mi ha aiutato, siamo entrati a Casablanca da sud.
Quando siamo arrivati in vista del porto c’erano tutti i portacontainer fermi a 5 miglia che davano motore per tenere la posizione all’ancora. Allora ho preso la surfata giusta, e terminato l’abbrivio subito dopo il frangiflutti ho virato e sono entrato nella quiete del porto!
Conosco bene quel porto dove sono andato 8 volte con le navi.
Pensa che in questa tempesta, durante la prima notte, io non sapevo valutare l’intensità del vento: non voglio sparare, però le onde non erano più onde ma montagne, i vuoti erano valli, una cosa pazzesca, secondo me erano alti come un albero. Una luce da una nave ha cominciato a chiedermi con il faro da segnalazione chi fossi, ed io ho risposto a lampi di luce con segnali morse e ho dichiarato “all ok”, tutto a posto. Loro hanno risposto “give me your position”. Allora sono andato sul canale 16, l’ho comunicata e mi hanno richiesto, questa volta a voce, di confermare se fosse effettivamente tutto ok.
Non ho risposto come quel navigatore francese che disse «e voi come state?»
AH AH AH! …Ti mancano le sensazioni che ti dava navigare?
Si, mi mancano molto!
Adesso navighi?
Ti faccio un inciso, quando sono tornato ho trovato la mia attuale compagna e abbiamo deciso di navigare di nuovo, di fare un giro del mondo. Ho comprato la sorella maggiore di Freccia, un Ovni 385, e l’ho armata come ho fatto con Freccia.
Al momento di partire mia moglie non è stata bene, purtroppo ha avuto seri problemi di salute che ci hanno impedito di partire.
Ho tenuto Freccia in Egeo, dove ho navigato per 5-6 anni, e poi l’ho venduta due anni fa.
Da due anni a questa parte non ho più messo piede in navigazione; su una barca sì, ma in porto.
Non ho più navigato.
Le tue passioni segrete oltre al mare?
Beh, non ho più passioni segrete; prima ti ho accennato della mia passione per lo studio delle erbe aromatiche, vado un po’ in bicicletta ma non ho altre passioni particolari; no, ho la missione di fare felici le persone che mi sono vicine.
I sogni….sognare è importante, guai non averne. Adesso hai dei sogni?
Si, ma preferisco non dirtelo è una cosa estremamente personale Mario, non prendertela e poi evade dal tecnicismo.
Tu chiudi il libro parlando della speranza, ma che cos’è?
È semplicemente l’unico aiuto per non essere pessimista.
Per concludere riprendendo l’incipit dell’intervista, cosa hai trovato all’interno del pianeta Rodolfo?
La grande gioia di aver seguito i miei sogni e di essere artefice della mia vita.
Questa la aggiungo, non so se ha senso; nel tuo libro hai lasciato le email di tutte le persone con cui hai scambiato pensieri e considerazioni alle quali hai dato un pezzo del tuo animo sei ancora in contatto con loro?
Quasi tutti.
Mi piacerebbe scrivere a ognuno e chiedere «chi è stato per te Rodolfo? Cosa ti è rimasto di lui?»
Beh, due o tre nomi te li posso dare…
E per concludere.
Ti ho parlato di quel marinaio che mi ha aiutato nella bufera più brutta della mia vita… . Quando poi siamo arrivati a Capoverde, mi ha abbandonato mentre si era impegnato fare la traversata con me, ed io mi sono sentito tradito ed ho rifiutato di dargli la mano quando me l’ha tesa,
Oggi come oggi, gli stringerei la mano e lo ringrazierei perché mi ha fatto vivere un’avventura unica.Vorrei dire un grazie anche a Freccia, perché l’altra tempesta brutta che ho preso è stato poco prima di entrare alle Fiji. Forse ti ricordi che ci sono dei passaggi obbligati fra i reef. Poco prima di entrare ho preso una “sbufferata” micidiale, improvvisa, potente, eventualità non segalata nel libro del Jimmy Conner.
Fortunatamente non ero ancora entrato nei canali di navigazione, avevo acqua sotto vento in abbondanza, ho ammainato tutte le vele, mi sono messo alla cappa, ho chiuso il tambuccio, mi sono sdraiato in sentina… , ed ho detto “Freccia, pensaci tu!”
MI SONO MESSO A DORMIRE