giovedì, Marzo 28, 2024

DAFNE, la mia prima barca, racconto di Nunzio Platania, detto il VATE – parte7

CAPITOLO SETTIMO


dove dopo tanti dolori torna il buonumore e con quello una riflessione finale


Il signor Bernacca alla TV del bar aveva previsto una breve pausa, seguita da un’altra perturbazione in discesa verso il sud, bisognava quindi approfittarne per non rimanere intrappolati a due passi dalla meta e quindi decisi di partire anche se era quasi sera.
Sei miglia più avanti c’è il canale di Brucoli; un posto da sogno: si tratta di un canale scavato profondamente da un fiume preistorico nella roccia calcarea che, con i riflessi del sole, ha il colore ambrato delle Dolomiti.
Era una delle mie mete preferite quando andavo col gommone.
Decisi di spostarmi almeno nelle sue acque tranquille.
Il vento ora scarseggiava e nella zona una forte corrente contraria invece che le previste due orette, mi consenti di arrivare a notte fonda.
Ormeggio su un lato del canale, evitando la pericolosa secca che c’è al centro e che conoscevo benissimo. Dall’altro la musica del villaggio Valtur ed il chiasso dei suoi ospiti.
Avevo fame e siccome a Siracusa non avevo voluto lasciare la barca, non avevo neppure provveduto a fare un po’ di rifornimento. Inoltre stupidamente avevo portato poco denaro con me e l’avevo speso nell’acquisto di una CQR a Porto Palo. Mi restava comunque la seppur nobile cifra per quei tempi di cinquemila lire.
Decido di dovermi con quella sfamare ed essendo troppo tardi per cercare qualcosa da mettere sotto i denti in paese che pur stava a due passi, avvolgo le mie risorse economiche in un sacchetto di plastica e tenendo la cassa in bocca, mi tuffo per raggiungere, con 50 metri appena di nuoto notturno, quel fornitissimo bar-ristorante che sapevo esserci al villaggio.
Siamo già ad Ottobre, l’aria è freschetta, quindi, uno, con la barba lunga, in costume da bagno,
gocciolante, che sbuca a mezzanotte dal mare e scalzo entra in un luogo con pretese di eleganza da serate danzanti e si dirige di filato al bancone per chiedere un panino al formaggio, dà sicuramente nell’occhio.
E infatti l’occhiata sconcertata con cui il barman mi guarda mi anticipa che non sarà facile
convincerlo a sfamare quel che sembrava un barbone nautico, spuntato dal nulla.
Prima mi dice che il bar è aperto ai soli ospiti.
Poi lo convinco che si tratta di una necessità impellente e, per scaricarmi, mi dice che devo prima passare dalla cassa.
Nella elegante sala all’allegro chiacchiericcio era ora subentrato un mormorio fatto di chissà quali commenti e condito di risatine divertite.
Il tale che sta alla cassa ha uno sgargiante papillon stile tropicale e vedendomi estrarre i miei bagnatissimi 5 mila, mi fa, con espressione disgustata : “Qui non accettiamo denaro!”
Pensai subito ad un generoso atto di munificenza da parte sua, ma per fugare malintesi si affrettò a precisare : “Bisogna che scambi alla banca con la nostra moneta. Ma adesso è chiusa!”
– Ma allora come si fa per sfamarsi – chiedo, conscio di porre un severo problema di immagine.
Papillon, seppur con palese malincuore, forse per non dispiacere qualcuno dei suoi ospiti che
assistevano alla scenetta con una visibile simpatia nei miei confronti, prese le mie gocciolanti
lirette italiane e tirò fuori dal cassetto una bella fila di palline di plastica, della grossezza di un cecio, color rosso, sette, accrocchiate assieme a formare una collana, e me la porse.
Lo guardai stralunito : “Sono pazzi qua dentro” – pensai.
Torno al bancone, indico uno striminzito panino, da dieta diabetica da cui fuorusciva una vile foglia di lattuga, e mentre l’addento voracemente, porgendo la collanina, faccio: “Si paghi!”
Il tale, con la smorfia di chi prende una schifezza dalle mani di un lebbroso, stacca 4 (ben quattro) palline e poi mi guarda con l’evidente compiacimento di uno che ha portato a termine una missione ad alto rischio.
Ci rimango male, ma assai male.
Un misero panino costato, dunque, al cambio notturno quasi tremila lire. Ci si faceva un pasto in trattoria all’epoca con simili cifre.
Il bello era che con le tre palline rimaste non potevo chiedere neanche il bis e l’appetito era ancora gagliardo.
Giro i tacchi che non avevo e, a piede nudo, me ne vado con evidente disappunto.
Mi rituffo in acqua meditando propositi di vendetta e appena risalgo in barca, mi viene un’idea brillante che rivela solo una minima parte del mio temperamento burlesco.
Avevo, fin dai tempi di Chioggia, comprato un gavitello col proposito di corredare in futuro il mio ormeggio a Catania; stava ficcato sotto la cuccetta a prua.
Lo prendo. E di un bel rosso fiammante, grosso quanto un cocomero ed ha la stessa forma ingigantita delle palline scandalose.
Mi rituffo, entro nella sala, mi guardano tutti, sbatto il gavitello sul banco del banchiere e con l’aria di sfottò più sfottò del mio repertorio, gli sparo : – ” E adesso mi scambi questo milione!”
Ci fu un boato di risate, gli ospiti si scompisciavano dal ridere, chi mi dava pacche sulle spalle,
chi rifaceva con le lacrime agli occhi lo stesso teatrale gesto di sbattere il gavitello ripetendo la battuta…
Il cassiere papillonato era paonazzo, ma dovette arrendersi di fronte al furore popolare.
Mi sfamarono gratis. Mi ingozzai per benino di ogni ben di dio e a qualcuno raccontai anche un po’ delle mie disavventure, mentre in tanti facevano a gara nell’offrirmi libagioni di tutti i tipi.
Quando me ne tornai ancora a nuoto in barca ero infreddolito ma soddisfatto: mi ero presa una bella rivincita nei confronti di tutte le angherie subite nel corso dell’intero viaggio.

Che si concluse l’indomani.
A Brucoli quando ti svegli ed esci dalla barca ci sono gli uccellini ad accoglierti con i loro  cinguettii; in primavera sulle pareti dell’alto canale spuntano i fiori del cappero, e le scale, scavate nella roccia e le grotte col nero sulle volte, dove un tempo si scioglieva la pece per il calafataggio delle barche, danno a quel luogo un’aura di arcano; da piccolo mio padre mi portava talvolta a fare il bagno sulla spiaggietta all’imbocco: allora mi sembrava enorme, ma è davvero minuscola. Sopra il paese si sveglia, ma c’è un ritmo antico nei movimenti della gente, le vecchiette curano i fiori sui davanzali delle finestre e scopano il marciapiedi davanti alle loro linde casette, con gli stessi lenti gesti che, più tardi nei miei viaggi, avrei visto fare alla loro consorelle greche.
Non c’è un altro posto nei dintorni di Catania che ti concilia con la vita e ti fa sentire il mormorio del tempo, come quello.
Ed io quel giorno, per la prima volta assaporavo queste sensazioni, dal pozzetto della mia prima barca. Col cuore stracolmo di felicità: ce l’avevo fatta. Un misto di orgoglio, ma anche di gratitudine, e poi di commozione accompagnarono la mia preghiera ai miei dei pagani.
Comprai qualcosa in paese, stavolta più per scaramanzia che per reale previsione di fabbisogno alimentare e poi andai incontro al più splendente, più radioso, più terso, più luminoso mattino che avessi veduto da quattro mesi.
Era veramente miracoloso. Se avessi dovuto descrivere il meglio delle più accoglienti giornate fantasticate per il mio trionfale ingresso nelle rada di Catania, non avrei neppure avvicinato le condizioni ideali che stavo vivendo.
Non era solo una questione climatica era nel mio interno che accadeva qualcosa.
Come se avessi portato a temine un rito antico.
Accanto a me, mentre mettevo le vele, c’erano tutti quegli uomini di cui avevo letto tanto, tutti gli Ulisse della storia, quella umile dei pescatori che tornano dalle loro fatiche, quelle illustre degli esploratori di terre lontane; c’erano con me tutti i rientri nei porti d’origine, quelli con le vittorie, con le sconfitte, con gli onori, con le disgrazie, quelli solenni, quelli ignorati, quelli definitivi, quelli provvisori…
C’erano con me tutti gli sguardi che fissarono il lento avvicinarsi delle coste familiari, tesi nella ricerca anticipata di volti cari, di paesaggi noti, di sentimenti da rinnovare.
Avvertivo come se adesso facessi parte di quella comunità che trova in questo unico punto il suo sentimento unificatore. Si va per mare per ragioni diverse, ma si rientra dal mare con lo stesso sentire; forse per questo anche adesso il rientro nei porti anche non tuoi è la parte più sentita della navigazione. Retaggio di una emozione millenaria.
Mi crogiolavo al sole e a queste fantasticherie, mentre la barca scivolava, complice e adesso del tutto amica, verso la meta.
Quando, ormai giunto, potei distinguere gli alti edifici del mio porto, il groppo alla gola che ormai si era decisamente stabilizzato e che premeva per uscire, inconfessato testimone delle paure rimosse, esplose in un rigoroso, pertinente, singhiozzo liberatorio.

Molti anni dopo una poesia, allora quasi sconosciuta ,adesso riscoperta, avrebbe detto con parole più eloquenti quello che fu per me quel viaggio.

Ne riporto i versi finali:

” Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t’ha donato il bel viaggio,
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso,
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.”

(Costantino Kavafis)

Sono passati 25 anni e se non avessi avuto sempre una Itaca
in testa non sarei stato qui a raccontarvi come l’ho scoperta