giovedì, Maggio 1, 2025

Il racconto sconvolgente di un soccorso in mare di Stuart Chambers

Le urla nella notte, la paura che si trattasse di pirati e la voglia di scappare. Poi la decisione di tornare indietro e accettare il rischio. Il racconto sconvolgente di un soccorso in mare in esclusiva dal suo protagonista per SVN

Sono partito a luglio, quest’anno, da Pwllheli nel Galles del nord, per consegnare Jasmina, la nostra barca, un Bénéteau 57, nel marina di Didim in Turchia, poco a nord di Bodrum. La prima tappa ci ha portato a Gibilterra, la seconda a Palermo e da qui siamo partiti per raggiungere la Turchia, passando per lo stretto di Messina e il canale di Corinto.

In questo ultimo tratto, visto che mio figlio e mia moglie potevano raggiungermi, abbiamo deciso di farlo insieme concedendoci una vacanza. A bordo con me, al momento degli eventi, c’erano mia moglie Nicky, mio figlio Oliver, il suo amico Archie e sua madre Sue.


Stuart Chambers a bordo della sua barca, Jasmina, un Bénéteau 57

Dopo che tutti si sono imbarcati, siamo partiti da Palermo alle 7 del mattino del 1 di settembre (anno 2015 n.d.r.), rotta su Zante, dove avremmo imbarcato mia figlia e il suo ragazzo. Alla mezzanotte dello stesso giorno abbiamo attraversato lo stretto di Messina e, ventiquattro ore dopo, stavamo navigando al centro dello Ionio, tra Italia e Grecia. Avevamo diviso la navigazione in turni e due di noi erano sempre in pozzetto.

La navigazione durante la notte
Venerdì notte, controllato che tutto stava funzionando per il meglio, sono sceso in branda, mentre Oliver e il suo amico erano di turno. Era una di quelle notti buie senza luna e con molte stelle in cielo che, però, non riuscivano a rischiarare l’orizzonte. Non c’era vento e noi procedevamo a motore a circa 7,5 nodi su un mare appena increspato da un’onda di mezzo metro: non si vedeva nulla.

Improvvisamente ho sentito qualcuno che gridava il mio nome in pozzetto. Balzai dalla cuccetta e mi precipitai fuori. Mio figlio e il suo amico Archie mi raccontarono di aver udito delle urla nella notte chiedere aiuto e di aver visto un paio di persone in acqua.

I ragazzi erano agitatissimi. Non erano sicuri di quello che avevano visto, né di quello che avevano sentito. In pochi minuti tutti gli altri si erano svegliati ed erano corsi in pozzetto. Ho messo il motore a folle e fermato la barca, per avere il tempo di riordinare le idee.

Tutti noi eravamo piuttosto sconvolti dall’accaduto: sentire alzarsi delle urla nella notte in mezzo al mare è una cosa che metterebbe paura a chiunque.


Il dubbio: e se fossero migranti? La scelta: cosa fare, e se fosse una trappola?

Una cartina del Mediterraneo con evidenziati i punti dove è più probabile incontrare dei barconi di migranti

Eravamo perfettamente coscienti di trovarci non molto distanti dal nord Africa e che molti paesi di quella regione erano in rivolta. Sapevamo dei migranti: quei disperati che attraversavano il Mediterraneo su delle bagnarole che spesso andavano a picco, ma sapevamo che c’era anche il pericolo che alcuni di quei migranti si fossero trasformati in pirati. I due ragazzi non potevano credere alla nostra esitazione e continuavano a insistere per tornare indietro a cercare chi aveva gridato nella notte.

Come comandante della barca, la mia prima responsabilità era nei confronti dell’equipaggio e io ero molto preoccupato che si potesse trattare di una trappola. Temevo che se fossimo tornati indietro, ci avrebbero puntato addosso una luce e uomini armati ci avrebbero abbordato gettandoci in mare e impadronendosi della barca.

Passarono 15 minuti (ancora oggi non so darmi pace per quel quarto d’ora passato a ragionare sul da farsi) e alla fine decisi che non potevo far finta di nulla e che avrei dovuto affrontare il rischio che si trattasse di pirati, rimisi in moto e cominciammo le ricerche.

“Ero molto preoccupato che si potesse trattare di una trappola. E se fossero stati naufraghi? Dovevo salvarli, dovevo correre il rischio.”

Una volta deciso che quelle voci erano di naufraghi, nella mia mente si mise in moto la macchina dei soccorsi: provai a chiamare la capitaneria greca sul canale 16 del VHF: le coste elleniche erano le più vicine, circa 80 miglia, ma nessuno rispose.

Controllai con l’AIS e vidi che la nave più vicina era a 25 miglia da noi. Lanciai il mayday al quale risposero immediatamente e gli chiesi di cambiare rotta per raggiungerci. Il capitano della nave non ci pensò su e mi diede subito la sua disponibilità, avvertendomi, però, che non sarebbe stato li prima di due ore.

L’altra nave più vicina era a 50 miglia: troppo lontana. Provai quindi a chiamare Messina radio, la capitaneria italiana sul VHF. Mi risposero e concordammo che sarebbero stati loro a chiamare per telefono la capitaneria greca per lanciare l’allarme e chiedere il loro intervento.

“…aiutateci, salvateci, no terroristi, noi uomini (men, men) no terroristi, salvateci…”

Ci mettemmo quasi mezz’ora per individuare il primo dei naufraghi. Sentimmo una voce nel buio che gridava “aiutateci, salvateci, no terroristi, noi uomini (men, men) no terroristi, salvateci…”.

Sentivamo le grida, ma non vedevamo nulla, ero ancora molto preoccupato che potesse essere una trappola dei pirati: feci spegnere tutte le luci ad esclusione di quelle di via, in modo da non permettere agli eventuali assalitori di individuarci sul ponte.

Oliver andò sotto coperta e, con una torcia, scandagliò il mare da uno degli oblò della cucina per cercare di capire con che cosa avessimo a che fare.

Era talmente buio che non era possibile vedere nulla a più di una decina di metri dalla barca. Stavamo navigando in retromarcia, perché non volevo rischiare di perdere l’allineamento con il punto che ritenevamo l’origine della prima richiesta di aiuto, quando udimmo di nuovo le grida.

A quel punto spensi il motore e cominciammo a gridare nel buio. Gridammo per tre volte e per tre volte facemmo silenzio per ascoltare la notte; alla fine, le voci tornarono e noi potemmo identificare il punto dal quale provenivano.

Rimisi in moto e mi diressi verso quel punto. Quando lo raggiungemmo ci rendemmo subito conto che non si trattava di pirati. Un uomo stava nuotando verso di noi mezzo nudo e senza giubbotto di salvataggio. Era chiaramente esausto e non avrebbe resistito molto di più.

Mentre ci avvicinavamo gli chiedemmo quanti fossero, gridò che erano trenta. Decisi che la cosa migliore da fare era mettere in mare il tender e farceli salire piano piano che li avvicinavamo, ma il tender era sgonfio e nel gavone.

Oliver e Archie corsero a tirarlo fuori e cominciarono a gonfiarlo. Mentre stavamo per raggiungere il primo dei naufraghi, udimmo altre urla di disperazione provenire da prua. Non c’era tempo da perdere, chi aveva urlato era allo sfinimento.

Non perdemmo tempo a tirare a bordo l’uomo in acqua e gli lanciammo un salvagente promettendogli che saremmo tornati a prenderlo. L’uomo non disse nulla e nuotò sino al giubbotto, che era in acqua, mentre noi ci allontanavamo perdendolo di vista di lì a poco.

Trovammo il secondo uomo e lanciammo in acqua il tender che ormai era pronto, lui ci salì. Sentimmo altre grida che ci portarono a un terzo uomo: anche questo salì sul tender che trascinavamo dietro di noi.

Mentre continuavamo a muoverci, i naufraghi che avevamo salvato ci confermavano che inizialmente erano in trenta, ma alcuni di loro erano già morti. Il mare davanti a noi, pensai, doveva essere pieno di gente che lottava per salvarsi la vita.

Finalmente ci chiamò la guardia costiera Greca. Riportammo i fatti e la posizione e poi continuammo la ricerca dei sopravvissuti.


Inizia il salvataggio
Ormai erano circa le cinque del mattino ed era ancora buio. Navigavamo per 5 minuti a motore, poi lo spegnevamo e ascoltavamo se c’erano segni di vita nelle vicinanze. Alla paura di essere attaccati dai pirati, si era sostituita quella del tempo che passava, ogni minuto in più poteva significare la differenza tra la vita e la morte per qualcuno di quei disperati che si trovavano in mare.

Improvvisamente avvistammo un grande gommone ribaltato. I tubolari erano rotti e solo un paio di metri della prua era ancora fuori dall’acqua, il resto era sommerso. Sul relitto c’erano 8 sopravvissuti.

“Più tardi ci dissero che nessuno di loro sapeva nuotare.”

Due erano seduti sulla punta dello scafo, gli altri sei erano in acqua e si reggevano alla barca. Erano pietrificati dalla paura, più tardi ci dissero che nessuno di loro sapeva nuotare.

Stimammo che in altre due ore la barca sarebbe affondata definitivamente e così fu. Riuscimmo a manovrare in modo da sfilare lungo il gommone semiaffondato, dando la possibilità ai due uomini che avevamo recuperato e che stavano sul tender di recuperare i loro compagni. Uno degli uomini che era sulla prua aveva una spalla rotta e, recuperarlo, fu molto difficile perché il dolore non gli permetteva di muoversi agilmente.

Non si sentivano più richieste di aiuto arrivare da nessuna parte, così ci fermammo per far salire a bordo gli uomini che avevamo sul tender. Li rifocillammo con acqua e qualcosa da mangiare e cercammo di comunicare con loro per sapere cosa era accaduto e quante altre persone bisognava cercare. Solo due di loro sapevano qualche parola d’inglese.


Jasmina, il Bénéteau 57 della famiglia Chambers

Dopo circa dieci minuti di una difficilissima conversazione, concludemmo che sul gommone erano in trenta; diciannove erano ormai morti affogati e ne rimanevano solo undici. Tra i morti c’era anche il capitano, uno scafista italiano. A bordo ne avevamo dieci, mancava ancora il primo uomo che avevamo trovato e al quale avevamo lanciato il salvagente.

Nel frattempo, la guardia costiera greca ci comunicò che un loro elicottero ci stava raggiungendo. Arrivò l’alba e vedemmo sopraggiungere la Mehmet Dadayli 1, la nave che avevamo contattato nella notte. Si fermarono poco distanti da noi e attesero a motori spenti che li raggiungessimo.

I naufraghi salirono sulla nave. Il comandante ci disse che sarebbe rimasto lì ad aspettare che la guardia costiera greca gli dicesse dove doveva portarli. Noi riprendemmo le ricerche per rintracciare il primo uomo e, se ce ne fossero ancora in vita, altri naufraghi.

Dopo circa 20 minuti ci chiamarono dalla Mehmet Dadayli 1, avvertendoci che avevano ripescato il naufrago al quale avevamo lanciato il giubbotto salvagente. Dopo un’altra ora, quando il giorno ormai era fatto, realizzammo che per gli altri passeggeri del gommone non c’era più nulla da fare.

“È stata un’esperienza straordinaria. Decidere cosa fare, è stato veramente molto difficile.”

Poco più tardi la Mehmet Dadayli 1, trovò il primo corpo, al quale ne seguirono altri nelle ore successive. Diciannove esseri umani avevano perso la vita quella notte, l’unica consolazione è che ne avevamo salvati undici.

È stata un’esperienza straordinaria. Decidere cosa fare, è stato veramente molto difficile. Per un attimo, a causa di tutte le storie di pirateria che avevo sentito, avevo deciso di fuggire e mettere in salvo il mio equipaggio. Ma, alla fine, una domanda mi tormentava: e se è tutto vero, se lì fuori ci sono degli uomini in pericolo?

Grazie a Dio non li abbiamo abbandonati e siamo tornati indietro. Non avrei potuto più dormire la notte se lo avessi fatto, tuttavia non me la sento di giudicare chi, nella stessa situazione ha scelto di non fermarsi. Scegliere è stata veramente una decisone spaventosa.


L’obbligo di soccorso in mare, cosa dice la legge
Un’antica consuetudine marittima stabilisce per il comandante l’obbligo di prestare soccorso a coloro che si trovano in pericolo in mare, indipendentemente dalla loro nazionalità, dallo status o dalle circostanze in cui vengano trovati.

Tale obbligo è sancito anche da due testi fondamentali del diritto internazionale: La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1982), in cui si afferma che “ogni Stato deve esigere che il comandante (…) senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita
b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo…” Art. 98.1; La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (1974), che obbliga il “comandante di una nave (…) in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza…” Cap. V Reg. 33.1.