Mamaroa parte 8
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Che cosa fare, dopo l’arrivo?
Dal 19 al 31 dicembre 1974 Mamaroa è rimasta ferma a Fort de France.
Dopo due-tre giorni di relax, impegnati soprattutto a scrivere e ricevere telegrammi, lettere e telefonate, e guardarci un po’ intorno per scoprire il piacere di essere di nuovo tra la gente, Annette ed io abbiamo dovuto prendere una decisione importante.
Intatti l’entusiasmo per la traversata riuscita così bene ci aveva fatto accarezzare un progetto decisamente ambizioso, quello cioè di ripartire ai primi di Gennaio per le Bermude, circa 1000 miglia verso Nord, per entrare nella zona dei venti costanti da Ovest e da lì attraversare nuovamente l’oceano dirigendo sulle Azzorre, infilare quindi lo stretto di Gibilterra e tornare a casa.
Confesso che la tentazione di ricominciare a correre con Mamaroa davanti al vento, e riprendere il ritmo interrotto, era grande, ma alla fine il buon senso ha prevalso.
Anzitutto una traversata del Nord Atlantico in pieno inverno e con il grande freddo poteva riservare grossi dispiaceri per una barca piccola come la nostra, con il bordo libero basso e con un equipaggio ridotto.
Infatti, pur con il vantaggio di prendere l’inevitabile cattivo tempo in poppa (lo spostamento delle depressioni nel Nord Atlantico è sempre da Ovest verso Est), bisogna considerare che una tempesta invernale in quei mari sarebbe potuta durare più giorni, costringendoci ad estenuanti turni al timone (non me la sarei sentita di affidare la condotta della barca, con un mare che frange di poppa, al timone a vento, che è bravissimo, ma non ha gli occhi per guardarsi alle spalle).
E poi le Antille ci sarebbero rimaste sconosciute, ed invece lì il sole era caldo e la gente ospitale.
Ed infine questo ipotetico ritorno in quella stagione avrebbe dato al nostro viaggio il sapore di una sfida al mare, cosa che non volevamo, poiché sappiamo tutti che il mare è infinitamente più forte di ciascuno di noi, e non serve trasformarlo in una specie di palestra dove misurare la propria presunzione.
Volendo, si può andare (quasi) dappertutto, ma con la barca adatta e poi almeno al nostro livello occorreva rispettare le regole del gioco delle stagioni. Se avessimo avuto tempo fino a luglio, allora Sì, avremmo fatto il nostro giro per le Antille, e poi saremmo ripartiti in Aprile, risalendo con il Sole alle latitudini dei venti da Ovest, per attraversare in maggio-giugno, quando il Nord Atlantico diventa più tranquillo e fa più caldo, ed arrivare in Mediterraneo in piena estate.
Ma noi invece dovevamo essere in Italia entro il 31 Marzo, quindi accantonammo definitivamente il progetto, e poiché occorreva circa un mese di tempo per il rientro di Mamaroa (cioè 20 giorni di viaggio sulla nave da Fort-de France a Marsiglia, più almeno 10 giorni per riarmare la barca a Marsiglia e fare il trasferimento all’Argentario), risultò che ci restavano a disposizione i due mesi di gennaio e febbraio per visitare le Antille. Decidemmo di sfruttare al massimo questo tempo, cercando di toccare nel nostro viaggio tutte le piccole Antille (circa 40 isole, senza contare gli isolotti disabitati); per non dimenticarne neanche una, occorreva percorrere in totale circa 2000 miglia.
Dedicammo quindi una decina di giorni (21-31 dicembre), con una pausa di riposo il giorno di Natale, alla preparazione della crociera ed all’organizzazione del ritorno (accordi con l’agenzia che si occupava della spedizione, la nave partiva il 28 Febbraio, acquisto di una invasatura per il trasporto, acquisto di alcune carte nautiche che mi mancavano, riassetto completo della barca e controllo dello stato delle attrezzature) e finalmente il 1° Gennaio, dopo aver trascorso la notte di fine d’anno ospiti del Club Mediterranee, partimmo dalla Martinica.
In 50 giorni, con una media di due ancoraggi al giorno e toccando quasi ogni giorno un’isola diversa, portammo a termine la crociera prevista. Alla fine eravamo un po’ stanchi per quel ritmo sostenuto, ma il 21 Febbraio 1975 Mamaroa era di nuovo a Fort de France, per prepararsi all’imbarco sulla nave (che doveva avvenire il 26 Febbraio).
Racconterò di questa bella esperienza di viaggio in uno dei mari più belli e più ricchi di tradizioni e di storia che esistano al mondo,
1 – Ecco un tipo di sestante realizzato in plastica, che a differenza di molti modelli tradizionali, costa poco: L.45.000. Data la leggerezza, he il grosso vantaggio di non stancare il braccio della persona che lo usa. Il modello qui fotografato si chiama E88CO e si può ottenere tramite Roberto Mannucci, Casella Postale 49, Ostia Centro, Roma.
UOMO LIBERO TU AMERAI IL MARE
Così disse Beaudelaire, così dice l’autore di questo articolo al termine delle sue 7000 miglia di mare su una barca di 7 metri. Ma ci sono anche problemi più venali: per esempio, come si fa a spedire la barca con una nave?
Questo è l’epilogo sul viaggio di Mamaroa, e vi parlerò della spedizione della barca da Fort de France a Marsiglia, del trasferimento via mare all’Argentario, e delle conclusioni che ho tratto alla fine del viaggio. Spedire una barca è molto semplice, se non si bada a spese, affidandosi ad un’Agenzia per le pratiche doganali, e ad un cantiere per curare l’imbarco.
Noi però eravamo alla fine di un lungo viaggio e la cassa di bordo era diventata molto leggera, e dovevamo contenere al massimo le spese, per cui effettuammo da soli le pratiche doganali, spendendo tra tasse, bolli e diritti vari solo 10.000 lire (l’Agenzia ce ne aveva chieste quasi centomila).
Il personale degli uffici doganali, abituato a trattare solo con incalliti lupi di mare, si mostrò molto sensibile alla presenza ed allo “charme” di Annette, e questo facilitò moltissimo le complesse pratiche burocratiche, ed in soli tre giorni i documenti per l’imbarco erano pronti, il giorno dell’arrivo della nave (il “Circea” della Compagnia Fabre di Marsiglia), mi recai a bordo per organizzare I’imbarco, e sorsero subito molte difficoltà: il 1° Ufficiale, regolamento alla mano, voleva assolutamente che la barca fosse caricata dalla banchina a cui la nave era accostata e questo significava per me noleggiare un autocarro e le spese di alaggio e trasporto sarebbero state un altro duro colpo alla cassa di bordo.
Non insistei comunque ed il giorno successivo mi presentai al Comandante all’ora dell’aperitivo con Annette, che aveva indossato per l’occasione il suo migliore vestito: tra un Pastis, un Dubonnet e qualche patatina fritta, in pochi minuti il problema era risolto, ci saremmo dovuti presentare l’indomani mattina alle 07.00 sottobordo, con la barca disalberata, rimorchiando l’invasatura (che avevamo acquistato di occasione per 40.000 lire, e che era di legno e quindi galleggiava).
La gru della nave avrebbe preso prima l’invasatura e poi la barca, adagiandovela sopra.
E così altre 150.000 lire erano salve.
Arrivammo puntuali all’appuntamento sotto il “Circea” (per ormeggiare ci vollero tutte le cime di cui disponevamo, il ponte della nave era oltre 15 metri sopra di noi), ma solo nel tardo pomeriggio la grossa gru della nave si affacciò dalla nostra parte.
Annette si arrampicò a bordo su una lunga scaletta di corda come un pirata (le mancava solo il classico pugnale tra i denti), ed io mi calai in acqua per assicurare dei cuscini di tela di sacco tra lo scafo ed i cavi di acciaio che imbragavano Mamaroa, quindi salii sulla barca e fui issato con essa, vivendo momenti di apprensione mentre la gru che si muoveva a scatti ci faceva ondeggiare allegramente tra fumaioli e montagne di containers, fino a calarci lentamente nella profonda stiva del “Circea”.
Conoscemmo così l’equipaggio, e passammo con loro la ultima sera alle Antille, raccogliendo la loro posta da imbucare a Parigi e dandoci appuntamento a Marsiglia.
Il giorno seguente, quando il Jumbo dell’Air France decollò, Annette si commosse vedendo dal finestrino, nella larga virata che l’aereo compiva per far rotta verso la Francia, le insenature e gli ancoraggi che ormai conoscevamo a memoria.
Il passaggio dal caldo sole della Martinica al cielo umido e piovoso di Parigi fu un po’ brusco, e ci mise di fronte alla realtà del ritorno.
Avevo un po’ temuto questo momento, il pensiero di non riuscire ad adattarmi di nuovo al grigiore dell’inverno ed al rumore della città, ed invece mi accorsi con piacere che Parigi era ancora ai miei occhi la meraviglia di sempre; dentro pensavo che certamente è bello partire, quando però si può ritornare.
Ritorno all’Argentario
Annette da Parigi, io da Napoli e Mamaroa da Gibilterra, il 16 Marzo eravamo di nuovo insieme a Marsiglia.
Le ultime 80 foto, portate a sviluppare a Parigi, non erano purtroppo riuscite, poiché la nostra macchina fotografica aveva un controllo elettronico dell’apertura del diaframma, e l’umidità e la salsedine avevano bloccato il congegno, senza che ce ne potessimo accorgere. Consiglio quindi, nel caso di uso prolungato a bordo di una barca, l’acquisto di una macchina fotografica il cui funzionamento sia esclusivamente meccanico, oppure, meglio ancora, di una macchina subacquea.
Le operazioni di scarico di Mamaroa furono rapide, e dati i cordiali rapporti con l’equipaggio del Círcea, ottenni facilmente di mettere la barca direttamente in acqua, e quindi ci trasferimmo con l’invasatura a rimorchio (che regalai al Club Nautico che ci ospitò) dal porto commerciale a quello vecchio nel– cuore della città.
Armammo la barca senza alcun aiuto esterno, grazie ancora una volta alla leggerezza ed alla semplicità di installazione dell’albero. Questo infatti poggia in coperta sulla scassa, che è munita di alcune coppie di fori per la regolazione in senso longitudinale a seconda che si desideri avere la barca più o meno ardente.
Per smontare o rimontare l’albero, basta farlo ruotare intorno al perno di fermo infilato in una di queste coppie di fori, sostenendolo perchè non si abbatta di traverso, ed aiutandosi nel piano longitudinale con il verricello stesso dell’albero, utilizzando una drizza dopo averla assicurata a prua al punto di mura del fiocco.
Dopo tre giorni, trascorsi facendo piccoli lavori ed aspettando che passasse un colpo di Mistral, che manteneva il cielo limpido ed azzurro, ma che intirizziva le mani quando si lavorava sul ponte, Mamaroa era pronta a riprendere il mare.
Le carte e pubblicazioni necessarie le avevamo già a bordo, acquistammo solo un po’ di viveri, ed il 20 marzo lasciammo Marsiglia.
Dopo una sosta notturna alla isola Porquerolles, all’estremità est del golfo di Tolone, il mattino seguente proseguimmo, prua ad est sulla Giraglia, con una gradevole brezza di ponente, fiocchi gemelli e timone a vento come ai bei tempi, sebbene i pullovers e le cerate ci ricordassero che ormai le Antille erano lontane.
Nella nottata il tempo cambiò, il mattino seguente il vento si stabilì dritto di prora rinfrescando sui 20 nodi, non era possibile proseguire per Capo Corso, e quindi dirigemmo su St. Florent, in fondo al golfo omonimo, di bolina stretta con mura a sinistra, fiocco I e due mani di terzaroli alla randa, bagnati ed infreddoliti.
Nel pomeriggio apparvero le montagne della Corsica ammantate di bianco, ed in serata entravamo in porto, dove attendemmo un giorno che il vento calasse.
Il 23 mattina partimmo alle 07,00, il bollettino era discreto, venti dal primo quadrante forza 4-5, per cui quando, guardando il barometro, mi accorsi che era sceso paurosamente a 970 mb, pensai con leggerezza che lo strumento si era guastato.
Alle 12.00 eravamo a poche miglia da Capo Corso, ed Annette stava preparando una frittata, quando arrivarono le prime raffiche. In dieci minuti si scatenò il finimondo, facemmo appena in tempo ad ammainare il fiocco e subito dopo tutta la randa, la frittata passeggiava in cabina, ed una raffica tranciò di netto alla base la pala del timone a vento.
Il colpo di vento veniva da NNE, quindi scappammo in poppa con la sola tormentina a 5 nodi, per guadagnare il ridosso del golfo di St. Florent.
Dopo tre ore era tutto finito, comunque decidemmo che per quel giorno bastava così, e rientrammo in porto.
Il mattino seguente telefonai al guardiano del fare della Giraglia, che ci aveva visti il giorno prima e che ci fornì gentilmente le letture riportate dall’anemografo il giorno precedente (45-50 nodi con raffiche a 62); il giorno 25, finalmente riuscivamo a doppiare il Caposotto con un tiepido sole di primavera, a sera costeggiavamo l’Elba, ed il mattino successivo, 26 Marzo alle 08.40, dopo aver bolinato tutta la notte contro un fastidioso vento di scirocco (il nostro mare è veramente capriccioso), entravamo a Porto S. Stefano, ormeggiando all’amichevole Cantiere dell’Argentario.
Eravamo proprio alla fine del viaggio (dal 1 aprile riprendeva il lavoro) e la sera venne Maurizio con alcuni amici a festeggiare Mamaroa. La nostra meravigliosa piccola barca, nonostante le oltre 7000 miglia percorse, appariva in splendida forma; e non poteva essere altrimenti, perchè una barca invecchia rapidamente se resta abbandonata in un porto, mentre per mantenersi giovane ha bisogno, proprio come gli uomini, di navigare.
Conclusioni
Ho cercato di fornire con questo racconto una panoramica dei problemi che ho dovuto affrontare insieme con Annette per realizzare il nostro viaggio alle Antille con Mamaroa.
Spero di avere dimostrato che non esistono particolari difficoltà, a condizione di avere una barca (non importa se piccola o grande, questo dipende dalle proprie possibilità economiche) costruita in modo semplice e robusto, sia come scafo che come attrezzatura di preparare adeguatamente il viaggio, e di conoscere almeno una lingua straniera, possibilmente l’inglese.
Prima di chiudere vorrei però esporvi alcune riflessioni, maturate in me durante questi mesi passati sul mare, che esulano dal campo puramente tecnico, ma che spero possano interessare, pur avendo valore strettamente personale e quindi discutibilissimo.
Per cominciare, dal momento che è necessario un certo ordine mentale per condurre una barca, c’è anche il pericolo, se non ci si autocontrolla, di diventare eccessivamente precisi e pignoli, e questo è un male, perchè un simile comportamento è in contrasto con la naturale semplicità della vita di mare.
Certo, l’essere “razionali” (in questo, come in qualunque altro campo delle nostre quotidiane attività) è un vantaggio, a condizione però di usare questa razionalità come strumento e non come fine, lasciando quindi lo spazio necessario alla fantasia ed alla poesia, senza le quali la vita perde il suo sapore.
Sarebbe infatti un peccato sciupare un’occasione per ritrovarsi con il mare, con chi si ama e con sè stessi, richiudendosi in un ottuso tecnicismo e limitandosi a macinare come dei robot miglia su miglia. Anche perchè un’occasione per partire non si presenta spesso, anzi credo che (almeno per noi che lavoriamo per vivere) questa è la cosa più difficile da realizzare.
Per riuscire a sganciarsi, sia pure per pochi mesi, da tutto quanto ci lega al nostro mondo, occorre infatti affrontare grossi sacrifici, ed essere sostenuti da una forte carica ideale.
Se manca questa carica, anche se il desiderio è forte, molto probabilmente si troveranno sempre scuse validissime verso sè stessi per non partire.
Personalmente, ho trovato la “mia” carica, oltre che nel desiderio di una pausa di riflessione nella mia vita di lavoro e di un ritorno pur temporaneo alla vita semplice a contatto con la natura, soprattutto nella presenza di Annette al mio fianco. Senza di lei, senza il suo sorriso, la sua serenità e la sua calma (non ho mai visto Annette avere paura di qualcosa, il suo fatalismo glielo impedisce), probabilmente non sarei mai partito.
Da lei ho appreso, tra le molte cose, una cosa importantissima: si può vivere piacevolmente su una barca anche senza sapere nulla o quasi di vele, di rotte e di manovre, soltanto se lo si vuole (Annette possiede grandi capacità istintive) e se si è nello stato d’animo di accettare serenamente le difficoltà in nome de] piacere di trovarsi in mare. E che, contrariamente a quanto alcuni pensano, è molto più facile per due persone che si vogliono bene andare d’accordo in mare che non a terra, dove ì piccoli e stupidi problemi di ogni giorno creano senz’altro le maggiori difficoltà all’armonia.
E poi una coppia, in quanto nucleo vitale completo, risponde pienamente alle necessità di indipendenza di una piccola barca, che e un piccolo mondo che si muove nello spazio vasto del mare.
La vastità degli orizzonti spinge naturalmente l’uomo alla contemplazione ed alla riflessione: dalla contemplazione trarrà gioia il credente, che vedrà nelle meraviglie e nel mistero dell’Universo la presenza di Dio, e trarrà conforto l’ateo, che troverà nella freddezza del vuoto assoluto degli spazi interstellari e nella perfezione del rapporto di causa ed effetto validi argomenti a sostegno della sua teoria, basata appunto sul principio di casualità.
Dalla riflessione poi ogni essere umano trarrà una lezione di umiltà, nel constatare per esempio che la propria vita individuale non ha in effetti più importanza, almeno dal punto di vista biologico, di quella del delfino che accompagna gioiosamente la barca, e che in natura conta sopra ogni cosa la continuazione, ed a volte più in generale la trasformazione nella continuità, delle specie.
Queste cose, che pure tutti conosciamo benissimo, sono più difficili da ricordare se restiamo chiusi nell’apparato protettivo-speculativo della specie umana che la civiltà industriale (sia nei sistemi liberali che in quelli socialisti) cerca affannosamente di realizzare; al di fuori del cosiddetto mondo civile esistono altre realtà, altre filosofie di vita, altre verità, forse.
Ed allora? Siamo veramente convinti che è qui da noi che si costruisce il futuro migliore per l’uomo?
Personalmente, non lo so più.
D’altra parte c’è il pericolo, in questo uscire dal guscio che è un viaggio in mare, di allontanarsi dalla comunità di appartenenza, isolarsi, il che forse non è giusto, “Libertà e partecipazione”, dice la bella canzone di Gaber, ed è soprattutto per questo che mi sono impegnato a scrivere questo racconto, non so con quale risultato.
Ma la libertà, credo, è qualcosa di più vasto ancora, essa è forse il tentativo, per ciascuno di noi, di conoscere l’essenza della propria coscienza morale: per ottenere ciò, occorre concedere all’individuo il massimo spazio, lasciandogli la scelta, per dirla in termini nautici, se seguire al gran lasco la corrente, oppure se risalire il vento ed il mare, anche contro tutto e contro tutti, se proprio lo ritiene necessario.
In fondo sposare una ideologia, nella politica come nella morale, può essere una soluzione, una comoda soluzione semplificativa, che ha il suo prezzo in termini di libertà.
Niente invece, credo, può appagare l’ansia di libertà dell’uomo, quanto il cercare di comprendere questo messaggio che viene dalla coscienza morale, alla quale è impossibile sfuggire o mentire, e che è per sua stessa natura rivolta al bene, perchè l’uomo come individuo (e purtroppo non necessariamente come collettività, questo è il dramma) è rivolto al bene, anche se poi a volte la sua debolezza sembra affermare il contrario.
Ed ora vi lascio, cari lettori.
Per fortuna, le strade che ci si aprono davanti sono molte, ed il mare non è che una di queste strade.
Ad Annette ed a me è toccato in sorte, in questa breve parentesi vissuta su Mamaroa, di seguire l’invito di Beaudelaire, il poeta francese che ha scritto: “Uomo libero, tu amerai il mare”.
Massimo Cerracchio
Mamaroa, la barca di sette metri protagonista della crociera atlantica di 7000 miglia, Eccola mentre viene scaricata dalla stiva del grande cargo che l’ha riportata in Europa
A sinistra, lo sbarco a Marsiglia della nave Círcea: Annette porta a rimorchio la grossa invasatura che sarà regalata al locale club nautico. Di fianco, Fort de France capitale della Martinica dove “Mamaroa” ha terminato la sua lunga crociera atlantica e nei Caraibi