lunedì, Ottobre 7, 2024

Mamaroa parte 7

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Ritorno alla Martinica
La seconda parte della nostra cro­ciera è stata senz’altro più impegnati­va, ed il percorso non meno interes­sante del precedente.

Le Isole Vergini sono completamente diverse dalle Grenadines, e molto più sviluppate economicamente (quelle USA in par­ticolare); il paesaggio cambia comple­tamente, queste isole sono più aride e generalmente più basse, il clima è più fresco ed il mare frequentato da gros­si Retches e schooners che svolgono attività charter.

E’ importante ricor­dare che gli Stati Uniti hanno un si­stema di segnalamenti con le boe di­verso dal resto del mondo, e che, ad esempio, entrando in un porto occor­re lasciare le boe rosse sulla dritta anziché a sinistra. Ciò ha spesso causato incidenti nelle Vergini, in quanto le isole inglesi e quelle americane sono vicine le une alle altre e se si fa con­fusione si rischia di finire su uno sco­glio.

A Charlotte Amalie (St. Tho­mas) abbiamo sostato due giorni per alcune riparazioni che abbiamo ese­guito con i mezzi di bordo (nella lun­ga bolinata per risalire da Portorico avevamo rotto entrambi i genoa e l’attacco in coperta di uno dei due stralli di prua). Proseguendo sempre contro vento abbiamo risalito lo stu­pendo canale di Drake (dove incrocia­va per attaccare i galeoni Spagnoli il famoso pirata inglese) fino a raggiun­gere Virgin Gorda.

Da lì il mare verso Est appare completamente libero, ed invece a circa 25 miglia a NNE si estende il banco e l’isola di Anegada, una striscia di terra assolutamente piatta e completamente circondata da barriere dì corallo; sembra che il nu­mero enorme (circa 300, dice il por­tolano) di navi che hanno trovato sul­le barriere di Anegadà il loro eterno riposo sia dovuto alla Corrente Equa­toriale (sconosciuta fino alla fine del secolo scorso), che essendo diretta da W verso E, portava a volte su quei banchi le navi provenienti dall’Euro­pa.

Le poche decine di abitanti di Anegada sono discendenti di famiglie che provvedevano al loro sostenta­mento predando le navi che venivano ad incagliarsi sulla barriera, e la fama sinistra di questa isola è così grande, che ancora oggi perfino i Lloyds di Londra escludono dalle normali poliz­ze assicurative i danni derivati da un naufragio su quest’isola, e le barche che effettuano attività charter nella zona escludono perciò accuratamente l’isola dalle loro crociere.

L’ultimo in­cidente era avvenuto un mese prima: un grosso ketch proveniente dall’In­ghilterra si era piantato sulla barriera e l’equipaggio si era salvato facendo uso della zattera auto gonfiante.

Tutte queste notizie ci avevano fatto venire una gran voglia di andare a visitare Anegada: decidemmo di partire da Virgin Gorda alle prime luci del gior­no in modo di arrivare in prossimità del banco con il sole alto sull’orizzon­te per meglio vedere il fondo, dirigen­do verso la costa sottovento dell’isola dove la barriera di corallo è più sotti­le, e prendendo continui rilevamenti in poppa della sommità di Virgin Gorda, appena visibile dietro di noi. L’atterraggio riuscì bene, facilitato dal basso pescaggio di Mamaroa (m 1.35) ed in condizioni di assoluta sicurezza (alla minima incertezza avremmo virato di bordo guadagnan­do acque libere e ritornando a Virgin Gorda).

Restammo per due giorni sull’isola, la cui costa nord è completamente di­sabitata, facendo lunghe passeggiate sulle interminabili spiagge di sabbia bianchissima, il sole accecante, il cielo blu ed il profumo dell’Oceano porta­to dal vento.

Alla partenza da Anega­da, risalimmo di bolina per un giorno intero il vento, il mare e la corrente Equatoriale, per evitare di passare troppo vicino al banco esterno del­l’isola, e dopo avere avvistato alle 02.00 del mattino seguente l’isolotto di Sombrero (oggi c’è un faro sulla sua sommità) dirigemmo in sicurezza, mura a sinistra e di bolina stretta su St. Martin (metà francese e metà olandese), dove arrivammo molto stanchi al tramonto del secondo giorno di navigazione.

Due giorni dopo erava­mo a St. Bartlemy, nell’incantevole porto di Gustavia, uno dei più belli che abbiamo visitato (il nome viene dal no­me del Re di Svezia nell’epoca in cui l’isola era svedese, ora invece è france­se.

Da quel punto fino ad Antigua non abbiamo più incontrato nessuno, per il semplice fatto che Saba, S.Eustache, St.Christopher e Barbuda non hanno porti, ed abbiamo passato le soste notturne rollando disperata­mente nonostante ormeggiassimo Mamaroa con un’ancora a prua ed una a poppa, per orientarla perpendicolar­mente alla direzione di provenienza delle onde.

Quei giorni furono molto duri, ma il sacrificio è stato ricompen­sato dalle brevi visite a terra (quelle isole, tagliate fuori dalle correnti turi­stiche a causa della mancanza di attrez­zature, sono pressoché intatte).

Splen­dida è Saba, che assomiglia alla nostra Montecristo, è la cima conica di una montagna sommersa, i fondali scendo­no ripidissimi, non ci sono ridussi, e nei suoi paraggi abbiamo incontrato due balene che sembravano giocare tra loro, le code erano più grandi di Ma­maroa e battevano l’acqua con colpi sordi. In quei giorni abbiamo veramen­te fatto la vita dei gabbiani, ed abbia­mo avuto la sensazione di appartenere più alla fauna marina che a quella ter­restre.

A Barbuda, difficile da avvicina­re in quanto anch’essa (come Anegada) circondata di coralli, ma fortunata­mente più elevata, e pressoché disabi­tata (è stata per secoli centro di raccolta degli schiavi), il mare è straordina­riamente ricco di pesce.

Un giorno andando a pesca con il fucile (ci andavo ogni volta che desi­deravamo mangiare del pesce, era co­me andare al mercato) ho trovato in un buco in soli 4 metri d’acqua, è una scena che non dimenticherò, tre piccole cernie una murena e due ara­goste in simpatica compagnia. Ho pre­so soltanto una cernia (la più piccola perchè entrava in padella) ed un’ara­gosta per Annette, scusandomi a gesti con gli altri abitanti per l’intrusione.

Ma il tempo incalzava, ed abbiamo ripreso il cammino, alla media di un’isola al giorno.

Ad Antigua abbia­mo passato una notte nel famoso English Harbour, uno splendido porto naturale a sud dell’isola, che era la principale base Inglese dei Caraibi, quando cominciò a brillare la stella di un giovane ufficiale, di nome Orazio Nelson.

E quindi Monserrat, la france­se Guadeloupe, i tranquilli isolotti des Saintes, e Dominica, scarsamente abi­tata e regno incontrastato della fore­sta tropicale.

Il 21 Febbraio Mamaroa rientrava a Fort de France dopo aver percorso circa duemila miglia nel ma­re dei Caraibi, trovando tra le barche alla fonda vecchie conoscenze e nuovi arrivati. Eravamo alla fine del capito­lo Atlantico, e già il nostro pensiero si volgeva indietro, a ricordare il paesaggio così variabilmente bello di que­ste isole, punto d’incontro delle civil­tà europee con il nuovo mondo.

Restava ora il “problema” di rien­trare in Italia.

 

NOTIZIE UTILI
Rifornimenti
I rifornimenti di viveri venivano fatti quando e dove possibile. A volte, in iso­le povere, si trovano al mercato solo pe­sci volanti e banane, e quindi e impor­tante avere a bordo adeguate scorte di viveri in scatola ed acqua (abbiamo con­sumato nella crociera tra le isole tutte le scorte di viveri avanzati dall’Atlanti­co): Anche i rifornimenti di carburante, petrolio, ecc, sono difficoltosi quando si e lontani dai porti principali.

Moneta
Nelle Isole inglesi ed ex-inglesi circo­la il dollaro ECC (East Caribbean Cur­rency) che vale circa 1/2 dollaro USA, nelle isole francesi il franco francese, in quelle olandesi il fiorino e nelle isole Vergini USA ed a Portorico il dollaro USA.  La soluzione migliore per non naufragare ìn questo caos monetario è e avere dei Travellers Checques dell’American Express di piccolo taglio, da cambiare di volta in volta secondo le esigenze.

Dogana
Regolamenti doganali sono piuttosto severi, In generale, in ogni isola è ne­cessario fare dogana in arrivo ed in parten­za, ed anzi arrivando in un’isola occorre innanzitutto entrare in un porto dove esistano le autorità di dogana. Questo e a volte molto scomodo, e noi abbiamo spessa trasgredito a nostro rischio alla regola, per non perderei un delizioso an­coraggio dove fare il bagno o passare una notte. l’importante comunque è pagare, dove esistono, i diritti di transito (in alcune isole povere dove le autorità locali si arrangiano come possono, la tassa è piuttosto sensibile, per xs, circa 4000 lire a S., Lucia per un permesso di scalo di 3 giorni).

Riparazioni
Nelle isole principali esistono adegua­te attrezzature per le riparazioni di uno yach. I costi però sono molto elevati, e c’è penuria di parti di ricambio ed in ge­nerale di attrezzature sofisticati: Valgo­no quindi le regole principali da tenere presenti nell’armare una barca che debba allontanarsi dal mondo tecnologicamente avanzato, e cioè semplificare al massimo l’attrezzatura velica, niente drizze inter­ne, rinvii “sotterranei”  in  Bozzetto, o al­tre esasperazioni derivate dal mondo del­la regata, ridurre al minimo (cioè anche a zero) le attrezzature elettroniche ed il fabbisogno di energia elettrica (con la so­la esclusione della illuminazione della bussola e delle luci di via) ed avere di scorta le principali parti di ricambio del motore (che dovrebbe preferibilmente essere di una marca che assicuri una vasta assistenza in tutto il mondo).

 

DUE PAROLE SULL’AMBIENTE
Qualche precauzione è necessaria per assicurare la massima tranquillità al­l’equipaggio di uno yacht nei Caraibi.

La popolazione locale è generalmente ospi­tale ed amabile, a volte però l’estrema povertà di alcune località, amaro retaggio del passato coloniale, può generare nei confronti di chi arriva su una barca da diporto un’atmosfera, se non ostile, cer­tamente non proprio favorevole. Inoltre in alcune zone (per xs, dintorni di Porto­rico, che non è proprio un posto per ti­midi), il mare è spesso teatro di imprese poco pulite (contrabbando, traffico di droga ecc,l e non è difficile trovare in un ufficio doganale foto di barche e persone ricercate.

Quindi è opportuno guardarsi sempre un po’ intorno, non esitare a partire se in un posto c’è qualcosa che non convince, evitare ancoraggi notturni solitari (a meno che non si tratti di una isola disabitata o di una barriera di coral­lo lontana dalla costa), avere possibil­mente un’arma da fuoco a bordo e so­prattutto non lasciare mai a lungo la bar­ca incustodita.

La natura a terra non offre particolari motivi di preoccupazione, a parte la pre­senza di qualche rettile, e del frutto di un albero, chiamato “crab apple” in in­glese, che ha l’aspetto di una piccola me­la, è dolce e molto buono (dicono) da mangiare, ma è mortalmente velenoso. Inoltre in alcune zone è meglio non man­giare i pesci di fondo (quelli pelagici so­no sempre commestibili) a causa della presenza sul fondo di alghe che conten­gono minerali di rame.

Infine, nel fare il bagno e pesca sub­acquea, è bene stare attenti agli squali

 

SISTEMI DI ANCORAGGIO
Nelle Antille è molto importante usa­re una corretta tecnica di ancoraggio, in quanto il vento soffia costantemente an­che di notte, e lo sforzo di trazione sul­l’ormeggio pan essere considerevole.

Co­me regola generale occorre cercare un fondo di sabbia o fango compatto, evita­re preferibilmente fondi rocciosi ed asso­lutamente fondi coperti di alghe ed infi­ne dopo avere ormeggiato bisogna ispe­zionare con il canotto (spesso l’acqua è trasparente come l’aria), o anche con pin­ne e maschera che l’ancora abbia agguan­tato bene.

Gli inglesi in genere usano la catena, e gli Americani ed iFrancesi alcuni metri di catena e poi un cavo di nailon. Entrambi i sistemi sono buoni, penso pe­rò che il cavo di nailon sia più pratico, quando si devono effettuare più ancorag­gi al giorno, purché si controlli sempre che anche se la barca ruota sull’ormeg­gio, il cavo non vada a strofinare sol co­rallo, che lo trancerebbe in pochi minutyi.

Ottima su sabbia e fango e l’ancora Dan­forth, molto leggera rispetto alla capacità di tenuta, anche se pe una grossa barca è preferibile una pesante CQR.

Contrariamente a quanto accade in Medi­terraneo, i porti veri e propri sono rari (in alcuna isole non esistono affatto por­ti) e quindi il classico ormeggio con la poppa ad una banchina non è quasi mai possibile, tranne nei rari “Marina che incominciano a sorgere qua e là. Gene­ralmente ci si ormeggia su una ancora in rada e quindi è indispensabile avere un canotto per andare a terra per la spesa o per la dogana, o anche per sbarcare in un posto qualunque.  Vediamo ora pero al­cuni casi in cui occorre seguire tecniche particolari di ormeggio:

  1. Ancoraggio sottovento ad una barriera di corallo affiorante: è un anco­raggio molto sugestivo per trascorrere una notte, si è magari lontano dalla co­sta, in mezzo al mare, con il rumore del­l’Oceano che rompa sopravvento, e l’acqua della laguna è calma come no specchio, c’è la luna, e la musica alla radio un bicchiere di “punch” al rhum, zucchero li­quido di canna e lime, ed il vento co­stante da l’impressione di essere in piena In questo caso occorre asso­lutamente ancorare su due ancore dispo­ste a Y, in quanto spesso il posto più tranquillo e una pozza d’acqua circonda­ta da tutte le parti da coralli affioranti se l’ormeggio mollasse durante la notte si puó essere quasi sicuri di perdere la barca.
  2. Bahaian Mooring ancoraggio tipico delle Bahamas: se il posto scelto per passare la notte é un braccio di mare compreso, ad esempio tra la costa ed un isolotto, è molto probabile che la zona sia soggetta a correnti di marea. Disporre quindi le due ancore (Vedi figura a 180 gradi lungo l’asse del braccio di ma­re, e dar volta ad entrambi i cavi a prua, dopo averli Tesati per bene. Quando la corrente cambia, la barca ruota intorno alla prua, mantenendo praticamente la posizione.
  3. Ancoraggio ad una costa: volendo ancorare vicino ad una spiaggia o costa rocciosa, per potere sbarcare senza usare il battellino, occorre anzitutto che il fon­do degradi rapidamente, In tal caso figura 2) si può accostare di poppa, o meglio di prua, filando un ancora in mare, e portando una cima a terra, le­gandola alla classica palma. Se manca la palma, scavare un bel buco e seppel­lirvi la seconda ancora.
  4. Ancoraggio ad un molo esposto al mare: infine, può essere necessario ormeggiare lungo un pennello molto espo­sto al mare, dove restando accostati, si ri­schia di rompere qualcosa, e dove po­nendosi perpendicolarmente ad esso il Mare al traverso renderebbe l’ormeggio intenibile. In tal caso (vedi figura 3) fi­lare un’ancora perpendicolare al pen­nello, legare il cavo all’albero, disporre le due cime di ormeggio, a prua ed a poppa in modo che la barca prenda il mare di prua, regolando infine se necessario la di­stanza dal molo agendo su una cima data di volta in volta sul cavo dell’ancora e re­golata a mezzo del verricello in pozzetto.

Il punto con il sestante
Il sistema “classico” per ottenere il punto con il Sole a mezzogiorno, consiste nel tracciare due rette d’al­tezza rispettivamente circa un’ora pri­ma ed un’ora dopo la meridiana, ed assumere il punto nave laddove la longitudine ottenuta tracciando la bi­settrice dell’angolo tra le due rette d’altezza incontra la latitudine otte­nuta con la meridiana. Ora il traccia­mento di una retta d’altezza presup­pone un calcolo abbastanza lungo, an­che se semplice, e l’uso di apposite tabelle.

Questo sistema invece (illu­stratomi dal solito amico inglese Eddy Shut,e che ringrazio ancora una volta) pur non essendo assolutamente niente di nuovo (anche se non ne ho trovato traccia nei “sacri testi” che conosco), e pur avendo dei limiti di impiego (cui accennerò) rispetto al si­stema classico, ha il grande vantaggio di eliminare il calcolo ed il traccia­mento delle rette d’altezza, fermo re­stando il calcolo della latitudine meri­diana, che è molto semplice.

Non ri­chiede più di 15′ di lavoro al giorno, non occorrono tavole, ma solo il se­guente materiale:

  • 1 sestante
  • 1 orologio con l’ora esatta di Greenwich
  • 1 contasecondi
  • le effemeridi dell’anno in corso
  • una matita ed un pezzo di carta su cui fare i conti
  • una carta della zona, su cui tracciare il punto

Ho pensato utile seguire un esem­pio pratico, eseguendo il calcolo in un giorno della traversata di Mamaroa (4 Di. 74), e che riporto qui accanto in due tabelle, una per la longitudine ed una per la latitudine, corredate dalle spiegazioni indispensabili per capire i simboli ed eseguire mecca­nicamente il calcolo, fatto esclusiva­mente di addizioni e di sottrazioni.

Consiglierei prima di leggere il testo, di esaminare le due tabelle ed il re­lativo commento. Per completare il discorso infine occorre dire qualcosa su come prendere un’altezza di sole, su come avere l’ora esatta a bordo e commentare un po’ le due tabelle per rendere comprensibile il processo di calcolo ed aggiungere alcune note esplicative.

Un’ultima considerazione, prima di metterci al lavoro: una volta tracciato il punto, bisogna “crederci”, ed avere il coraggio di modificare se necessario la rotta in conseguenza.

Un’altezza di sole
Il sestante è uno strumento di precisione, e fino a qualche anno fa era molto costoso

Ogni un buon sestante di plastica (tipo EBBCO) sufficiente­mente preciso, costa L. 45.000, ed ha il grande vantaggio di essere molto leggero, e quindi di non stancare il braccio che lo deve sorreggere.

Prima di prendere l’altezza di Sole, occorre conoscere l’errore (y) dello strumen­to: azzerarlo quindi, e traguardare l’orizzonte marino, dopo aver tolto tutti i filtri.

Se la linea riflessa del­l’orizzonte non coincide con quella reale, agire sul pomello di regolazione per farle combaciare, e prendere nota dell’errore con il suo segno (se questo dovesse essere superiore ai 5-6 primi di grado, occorre calibrare lo stru­mento, per riportarlo in questi limiti di tolleranza).

L’errore ‘y serve nel calcolo della latitudine per passare dalla altezza indicata (hi) all’altezza osservata (h0), mentre può essere nel nostro caso tranquillamente ignorato nel calcolo della longitudine, purché naturalmente resti lo stesso tra la pri­ma e la seconda osservazione, in quanto ci occorrono i tempi (T1 e T2) di altezze uguali di Sole, ma non ci interessa sapere il valore effettivo di tali altezze.

Per prendere ora la no­stra altezza di Sole, con il sestante azzerato e con i Filtri inseriti (per non essere abbagliati dalla luce) traguarda­re il Sole (le due immagini reale e riflessa coincideranno) e quindi spo­stare l’alidada seguendo l’immagine ri­flessa dei Sole fino a portarla grosso modo sull’orizzonte.

A questo punto si è pronti per la lettura e, per pren­dere il tempo senza disturbare Annet­te che sta cucinando o leggendo, ope­rare come segue:

  1. Appendersi al collo con uno spago abbastanza lungo (circa 60 cm) il contasecondi e, impugnando il se­stante con la mano destra e tenendo nel cavo della mano sinistra il conta­secondi, portare il lembo inferiore del Sole a sfiorare l’orizzonte, ruotando con il pollice e l’indice di questa ma­no il pomello di regolazione del se­stante.
    Accertarsi con un movimento “a pendulo” che quando il Sole sfiora l’orizzonte, lo strumento è perpendi­colare all’orizzonte stesso (altrimenti l’errore può essere rilevante), assicu­rarsi che l’orizzonte sia quello vero e non un’onda più vicina (si avrebbe un errore in difetto nella lettura) e final­mente scattare con il dito medio della mano sinistra (o l’anulare o il migno­lo…. a vostra scelta) il contasecondi.
  2. Andare tranquillamente al tavo­lo da carteggio, e quando sono passati 60″ sul contasecondi leggere sull’oro­logio di navigazione (conservato ben protetto in una scatoletta) i secondi, poi i minuti (sottraendo il minuto trascorso) ed infine l’ora. Annotare infine sia il tempo letto, sia l’altezza indicata (hi) sullo strumento.

 

L’orologio
Per un calcolo preciso della longi­tudine, è fondamentale avere a bordo l’ora, esatta, La nostra piccola radio sulle onde corte ci forniva gli stop orari in ora di Greenwich (GMT = Greenwich mean time, ossia tempo medio di Greenwich) trasmessi ogni ora 24 ore su 24 dalla potente emit­tente della BBC (British Broacasting Corporation) in un servizio che raggiunge ogni angolo del mondo con notizie, commentari e musica, e che si chiama “BBC World Service”.

Le frequenze, che cambiano a seconda delle ore e della zona del mondo, per assicurare la migliore ricezione, sono indicate nell’opuscolo mensile “Lon­don calling” (cioè “Radio Londra vi chiama”) che può essere richiesto (gratuitamente) alla BBC, oppure ad Ambasciate, Consolati o Uffici del Turismo Inglese.

In caso di rottura della radio avremmo attribuito al­l’orologio (anzi a due oroIogi che avevamo, due normali orologi cha pol­so di poco prezzo, ma alimentati a batteria per non dimenticare di cari­carli e muniti di una lancetta grande per i secondi) l’errore (K) dei giorni precedenti, che registravamo su di una apposita tabellina.

Anche la perdita dell’ora esatta non è comunque molto grave, in quanto poiché sappiamo che per il calcolo della latitudine basta avere un’ora approssimata (anche 4-5 minu­ti di errore sono tollerabili), tutto si sarebbe risolto in un errore di stima sul tempo di arrivo, ma la latitudine della Martinica non poteva sfuggirci!

 

Qualche commento
Il sistema di calcolo della longitu­dine si basa sulla semplice considera­zione che, essendo ì due tempi TI e T2 relativi a due altezze uguali di So­le (prese rispettivamente prima e do­po la culminazione), la semisomma (Ti +T2):2 dà come risultato l’istante del passaggio del Sole al meridiano dell’osservatore.

E quindi evidente­mente la differenza di tempo che il sole ha impiegato per passare dal me­ridiano di Greenwich (valore indicato sulle Effemeridi) a quello dell’osserva­tore, espressa in gradi e primi di gra­do, è proprio la longitudine dell’osser­vatore. Se si vuole essere più precisi, si possono fare due (o più) letture di altezze uguali, prima o dopo la meri­diana, e fare quindi la semisomma dei tempi risultati dalla media dei due gruppi dì osservazioni.

Occorre fare un po’ di pratica per prendere il tempo T2 (al punto 6 del calcolo della longitudine), questa è forse la cosa più difficile, per non far­si scappare l’”attimo” in cui il Sole si poggia sull’orizzonte.

Infatti avendo inserito sul sestante il valore dell’al­tezza relativa al tempo T1, non si deve più toccare il pomello di regolazio­ne, e bisogna traguardare il Sole fino a che questo, scendendo lentamente, non si poggia sull’orizzonte, e fare quindi partire il contasecondi.

Questo sistema di calcolo della longitudine, ha però due limiti, uno di carattere pratico, ed uno di carattere teorico.

Il limite pratico è costituito dall’even­tualità che il Sole si copra nel mo­mento in cui si deve fare la seconda osservazione per avere tempo T2. In tal caso si può comunque sviluppa­re con le tavole e tracciare la retta d’altezza relativa alla prima osserva­zione (i dati hi e T1 li abbiamo da parte) ed attendere che il sole ricom­paia per tracciare un’altra retta d’al­tezza e quindi il punto, oppure si può tranquillamente rimandare tutto al giorno dopo (noi abbiamo fatto il punto ogni giorno, ma chi vieta in una lunga traversata di farne uno an­che ogni …..settimana? ),

Il limite teorico consiste nel fatto che il calcolo risulta esatto soltanto se la barca mantiene nell’arco di tem­po tra le due osservazioni e dopo la meridiana approssimativamente rotta e velocità costanti (oppure al limite che sia ferma).

Se volessimo quindi applicare questo metodo facendo dei bordi di bolina, oppure variando sen­sibilmente la velocità, l’errore diver­rebbe rilevante. ln termini relativistici si può dimostrare (ma mi risparmio e vi risparmio la fatica), che, per non avere errori il moto della barca deve essere di tipo inerziale (deve cioè ave­re la caratteristica dello stato di quiete o di moto rettili­neo uniforme).

Il metodo descritto per il calcolo della latitudine invece, non ha alcuna limitazione ed è quello classico e molto semplice, che consen­te di ricavarla rapidamente, conoscen­do l’altezza vera (hv) di culminazione e la declinazione del Sole in quel giorno ed ora.

Nei tempi antichi, quando non esistevano ancora stru­menti precisi di misura del tempo la latitudine era l’unico parametro cono­scibile in navigazione, per cui le navi si portavano coti conveniente anticipo sul parallelo del porto di arrivo, e poi navigavano con rotta verso Ovest ed Est (a seconda dei casi) fino ad avvi­stare terra.

In conclusione, desidero dirvi che con questo metodo per il punto con il sestante, Mamaroa ha conosciuto con esattezza ogni giorno la sua posi­zione e questo consentiva di apporta­re le piccole modifiche di prua l°-,2°) per mantenere la rotta prefis­sata.

Tra la prima lettura di altezza e la meridiana, generalmente prendeva­mo l’aperitivo: mentre tracciavo sulla carta la latitudine ottenuta con la me­ridiana, Annette ultimava la prepara­zione del pranzo, al momento della seconda lettura d’altezza il pranzo era finito (forse ci sarà stato a volte qual­che piccolo errore dovuto al … vino) e poi si andava a fare la “pennichel­la’.

Le oscillazioni di prua (pressoché simmetriche da una parte e dall’altra rispetto alla rotta seguita) e le piccole variazioni di velocità non hanno pressoché influenzato la precisione del risultato.

E la conferma di ciò l’ho avu­ta facendo a volte al tramonto o al­l’alba dei punti con le stelle (ho rile­vato a seconda della necessità Hamal„ Deneb, Schedar, Vega, Fomalhaut, ol­tre naturalmente la Polare, e qualche volta la Luna ed anche un pianeta, Giove); questi punti stellari conferma­vano pienamente i risultati ottenuti con il Sole.

Ma il discorso delle stelle non fa parte dell’ABC per traversare l’oceano, è una cosa superflua (il Sole è più che sufficiente) che ho fatto più per divertimento che per altro, ed anche per sentire il fascino della tre­molante luce di una stella portata sul­l’orizzonte con il sestante, nel mo­mento solenne della caduta del gior­no, e per poter continuare a fare i conti la sera alla luce della lampada a petrolio (mentre all’interno di Mama­roa si spargeva l’odore della cena che Annette stava preparando), fino a ri­portare con un cerchietto sulla carta la nostra posizione nell’immensità del­l’oceano.

 

7 continua